Tea for Two – Giorno di dolore
Il problema è che dimentichiamo. Che ci abituiamo. Il lato animalesco ci protegge così: ci ricorda di mangiare, dormire e chiedere ogni tanto un abbraccio. Non può attrezzarci in altro modo per sopravvivere, se non eclissando dalla nostra mente il dolore. Mentre delle voci, che si facevano sempre più flebili e stanche, urlavano il dramma siriano, io continuavo imperterrita a pettinarmi i capelli, comprare libri alla Feltrinelli e mangiare cornetti al cioccolato. Perché Aleppo è lontana, non incontrerò Aleppo a fare shopping in Via del Corso anche se la mia famiglia discende proprio da lì, da Aleppo. E, se mai un giorno avrò il coraggio di tornare, troverò solo macerie. O forse non ci saranno nemmeno più quelle. Quando il mondo, come direbbero gli Articolo 31, “ti sorride con il suo ghigno peggiore”, mi capita sempre la stessa cosa: improvvisamente sento uno schiaffone che mi colpisce in pieno viso e per un giorno non faccio che tormentarmi. Faccio colazione e mi rendo conto che la pagina del New York Times è inagibile e mi viene da piangere. Poi da twitter scopro che hanno un indirizzo sostitutivo e vorrei dare un bacino sul naso a tutti i giornalisti. Inizio a deprecare la mia mediocrità, ma in fin dei conti sento che la megalomania non porta da nessuna parte. Allora parlo con le mie amiche, con i miei genitori, con mia nonna che funziona più dell’Ansa e ripeto: “Vi rendete conto?”. Vorrei solo ingoiare una pasticca di Italiano Medio (Chi conosce Maccio Capatonda sa a cosa mi riferisco). E poi parto con il piagnisteo, mi conosco. Vedo i video e piango, vedo le foto della moglie di Assad e piango. Vedo i baffi di Assad e indovinate? Piango. Sono pavida, una mammoletta. Non ho il coraggio di cambiare il mondo. Riesco solo a farmi sommergere in maniera incontrollata da informazioni e pugni allo stomaco. Riesco solo a ripetere come un mantra: “No dai, Tel Aviv no”. E mi viene in mente una foto, pubblicata da Haaretz, di una bambina che dorme con la sua maschera antigas e vicino a sé ha un cagnolino che indossa la sua maschera artigianale. Penso addirittura al discotecaro seriale conosciuto in Israele che deve lasciare le lucine al neon per diventare operativo. O alla ragazza scorbutica che vende vicino alla tayeleth le ricariche telefoniche e lancia anatemi contro in francesi. Non vedo l’ora che la mia giornata da engagé finisca. Non vedo l’ora di tornare all’insostenibile leggerezza del mio essere. Ma forse questa volta durerà un po’ di più.
Rachel Silvera, studentessa
(2 settembre 2013)