5774 – Quest’anno ricordiamoci del futuro
Ci sono almeno due buone ragioni per versare lacrime sincere. Un intenso dolore, ovviamente. Ma anche una sorta di commozione, quella che si prova ammirando le capacità professionali altrui. In genere si piange per un motivo, oppure per un altro. Non so come, il collega Joerg Bremer, corrispondente da Roma del più autorevole quotidiano europeo, la Frankfurter Allgemeine Zeitung, è riuscito invece con un suo articolo a farmi mischiare le lacrime. Magistrale la sua professionalità, nel raccontare in poche parole e senza sprecarne alcuna, una storia, la nostra. Dolorosissimo il tema, soprattutto per chi, come molti di noi, ha probabilmente trascorso l’anno dimenticandosi di affrontare i veri problemi dei tempi nostri. Il titolo “Die Sehnsucht nach deutsche Vita” (Alla ricerca di una vita tedesca, che suona come ‘Dolce vita’ sulla base di una perfida e intraducibile assonanza) ci racconta di un’intera generazione di giovani italiani che prepara le valige. I nostri giovani se ne vanno. Quelli su cui abbiamo investito, quelli cui avremmo dovuto consegnare il futuro. C’è chi ha l’aria di partire per le vacanze e spera di non tornare. Chi si tuffa in un Erasmus tentando di tirarla per le lunghe. Chi trova finalmente un lavoro adeguato. Chi ha conquistato nelle nostre scuole competenza e professionalità e ora vorrebbe farsi valere là dove tali doti non vengono di norma prese a calci. Sono stufi della nostra politica, della burocrazia, della morte delle speranze. E chi non parte, accarezza almeno la speranza di farlo. La Germania, con il suo mercato del lavoro in forte crescita, il suo sistema di vita semplice e trasparente, è una meta privilegiata, ovviamente non la sola. E Bremer racconta le speranze, i successi e le disillusioni dei tanti giovani che cercano di imparare qualche parola di una lingua difficile prima di lasciare l’Italia, sbarcano e conquistano il successo, oppure talvolta non riescono a resistere e ritornano sconfitti. La sua inchiesta serve a dirci che non si tratta di singoli casi isolati, dei figli degli amici, o dei nostri, che vanno in giro per il mondo. E’ un esercito che ci volta le spalle. Quello che è vero per la società italiana lo è ancora di più per gli ebrei italiani. A Berlino, dove in pochi anni da 6000 gli ebrei superano i 100 mila, a Londra e a Tel Aviv. Siamo i primi ad apprezzare i benefici della globalizzazione, della possibilità di andare lontano. Ma se i casi singoli, soprattutto quando la meta è Israele, non possono che suscitare simpatia, possiamo davvero permetterci un esodo massiccio della nostra gioventù più motivata? Prima che sia troppo tardi, sarebbe forse meglio rivedere l’agenda. Nell’anno che sta per concludersi abbiamo perso tempo, assieme a milioni di connazionali, abbandonandoci al vittimismo, alla malevolenza, all’invidia. Abbiamo mancato di riconoscere i meriti di chi lavora. Ci siamo appassionatamente disputati una torta delle risorse che diventa sempre più piccola senza minimamente preoccuparci di ingrandirla. Come se non bastassero i nemici veri, ci siamo inventato nemici immaginari. Non è solo imbecille, è anche un fattore che avvelena la crescita. Molti dei nostri giovani non possono capirlo e, al di là della crisi, trovano un motivo in più per fare le valige. Perché così facendo sbarriamo la strada del loro futuro. Nel nuovo anno, fra i tanti buoni propositi, potremmo cercare di pensare a loro. Impegnamoci per una formazione culturale e professionale che non sia di cartapesta e per la creazione di posti di lavoro veri. Fermiamo la retorica, la superficialità, il precariato. Restituiamo spazio alla speranza. Il direttore della Stampa Mario Calabresi ha ben colto questo punto parlando del futuro dei giovani giornalisti italiani in un editoriale intitolato “Creare lavoro, non solo difenderlo” (di fronte alla crisi, scrive, “un solo soggetto e sconfitto: i giovani giornalisti o gli aspiranti tali, quasi che il problema fossero loro. Non solo gli si dice che per salvare l’esistente e necessario alzare un muro che li tenga lontani, ma non gli si da nemmeno la possibilita di imparare”). Per quanto mi riguarda ho deciso di cominciare l’anno con gli occhi asciutti. L’ultima lacrima che mi restava l’ho spesa per l’emozione di firmare una dichiarazione, la sesta, diretta all’Ordine dei giornalisti a certificare la conclusione di un nuovo praticantato giornalistico. Sei giovani ebrei italiani cresciuti in campo ebraico sono oggi giornalisti professionisti a testa alta. Grazie al Consiglio e alla Giunta dell’Unione per questo piccolo grande segnale di coraggio che fa ripartire la speranza e crea grandi risorse con piccoli investimenti. Nel 5774, prima di perderli e di doverli rimpiangere, investiamo sui nostri giovani. E ricordiamoci del nostro futuro.
Guido Vitale, giornalista
(3 settembre 2013)