5774 – Il voto e le insidie del populismo
Nell’anno che si sta chiudendo, l’Italia ebraica ha dovuto nuovamente affrontare l’appuntamento elettorale. Un appuntamento che, come in ogni comunità, suscita polemiche, che quest’anno sono state particolarmente aspre anche in virtù di una considerevole (sempre in dati percentuali) partecipazione di personalità ebraiche nelle liste dell’uno o dell’altro schieramento. Stante il fatto che tutto fa pensare che l’appuntamento si ripeterà anche l’anno entrante, non pare inutile spendere un’ulteriore riflessione sul tema, ben sapendo che votare da una parte o dall’altra indica il punto in cui ciascun ebreo trova la sintesi fra le due componenti identitarie della propria persona: quella ebraica e quella nazionale. Cominciamo dalle novità. Se un merito ha avuto il M5S è quello di aver ricompattato l’ebraismo italiano (le eccezioni ci sono e sono sempre ammesse): quello tradizionalmente di “sinistra” ha visto riproporsi in un sol colpo un’impostazione culturale e antichi pregiudizi, che sperava di aver contribuito a superare; quello di “destra” ha visto utilizzati i più beceri argomenti antiprisionisti che li hanno sempre spinti verso l’altra parte politica. Dal canto suo, il centro-sinistra italiano ha senz’altro attuato un processo di allontanamento da antiche posizioni e basti per questo pensare a una figura come quella di Matteo Renzi apertamente pro-Israele, con la folta pattuglia di parlamentari che si porta dietro e col peso politico-mediatico che esercita tra le file del suo partito. Ciononostante, il mancato ricambio ai vertici del PD, come non ha offerto l’aria di un rinnovamento al medio elettore italiano, non ha consentito uno spostamento degli equilibri del voto ebraico italiano. Così come non si sono sentite, nel corso del dibattito di quei mesi, alzarsi grandi voci per l’avventura elettorale di Mario Monti (credo mai nominato nel corso dell’intero dibattito), a cui sembrava preferirsi “Fare per fermare il declino” di Oscar Giannino, che aveva intuito l’attrazione che esercitava sul mondo ebraico, ma poi è finita come è finita. Si giunge infine alla persona di Silvio Berlusconi, con cui si identifica orgogliosamente tutto il PDL, ossia il centro-destra italiano. Come l’intero Paese, anche l’ebraismo italiano si è diviso su questa figura: chi fin dagli esordi lo ha considerato come l’uomo di rottura rispetto alle posizioni filopalestinesi della diplomazia italiana di andreottiana memoria, chi come una persona senza scrupoli, portatore di una visione faraonica del potere, che per raccogliere qualche voto in più, non ha avuto remore nel riabilitare tutti gli ex-fascisti italiani, da Fini (mal gliene incolse) a Storace e via via fino a Ciarrapico. Inutile riproporre qui gli argomenti pro e contro che tante divisioni hanno creato, penso piuttosto sia utile indagare il problema che sta dietro il dilemma pro o contro Berlusconi. Bisogna anzitutto dire che l’ebraismo ha sempre vissuto un conflitto fra una parte identitaria, attenta al destino del popolo e rivolta all’ideale dello Stato ebraico, e una cosmopolita che, nelle sue punte più alte, ha nutridelto il grande pensiero dell’umanità in campo scientifico e umanistico. Inutile negare che le due identità si sono spesso contrapposte, anche, se non soprattutto, nei tempi moderni; si pensi all’Einstein che rifiuta la presidenza dello Stato di Israele, alla Hanna Arendt della “banalità del male”, o al Freud che cerca riferimenti culturali nella Grecia antica per dare legittimità a una scienza talmente ebraica da riassumersi in quello “scemà bekolì”, che Rivkà rivolge al figlio Ya’akov per convincerlo a seguire il piano con cui sottrarre la primogenitura. Si sa anche che questa contrapposizione ha raggiunto punte estreme, con un ebraismo che ha rifiutato il confronto politico e sociale col contesto circostante e uno che ha talmente ridotto la sua partecipazione alla vita ebraica da aver completamente assimilato l’orizzonte valoriale della comunità circostante. Posizioni che sono state anche teorizzate e che si sono ripresentate a ogni passaggio storico, da chi invocava il ritorno nei ghetti dopo l’avanzata napoleonica a chi predicava un ritorno alla Torah contro la tradizione talmudica, considerata retaggio di tempi pre-razionali. C’è da domandarsi molto sul senso di questa frattura che sembra voler separare due facce di una stessa medaglia: tutti i valori universali che sembrano contrapporsi alla religione dei figli di Israele nascono da Israele stesso; nascono con la decisione mosaica di uscire da un sistema gerarchico e assolutista, che sacrifica gli individui alla volontà e al prestigio del faraone. Quello stesso Mosè che spinge il popolo all’unità e non perché tutti dobbiamo pensare a uno stesso modo come un gregge di pecore, ma perché siamo tutti ebrei e tutti abbiamo il dovere di vivere i due corni identitari che, volenti o nolenti, ci portiamo dietro. Anche perché sparito uno, sparisce anche l’altro, come la storia non ha mancato di ricordare. Un ammonimento che vale tanto più in momenti di antisemitismo crescente che colpisce da più fronti. A Rosh haShanà si celebra la nascita del primo uomo, che è anche l’archetipo di un’identità non scissa; un’immagine che può essere richiamo e monito per tutti gli ebrei, della diaspora e non.
David Assael, ricercatore
Pagine Ebraiche, settembre 2013
(10 settembre 2013)