…Marco

Sono passati quarant’anni dalla guerra del Kippur. Il mondo è cambiato, molto, ma le ferite rimangono aperte. In quello stesso Sinai dove oggi l’esercito egiziano va a caccia delle bande di qaedisti e di islamisti con la bonaria approvazione e collaborazione dell’Occidente e di Israele, tanti anni fa si combatteva una guerra diversa, con la quale forse è ancora presto per poter fare veramente i conti (in termini di responsabilità, inadeguatezze, superficialità politica). Per me, bambino, gli egiziani del tempo erano i nemici che forse avevano catturato mio zio Marco, sorpreso con i suoi compagni nel fortino di Firdan a difesa del Canale di Suez. Guardavo ossessivamente i telegiornali in bianco e nero, le cronache di Marcello Alessandri che trasmettevano le immagini delle schiere di soldati israeliani prigionieri, nella speranza/certezza che avrei riconosciuto il volto di quel mio caro, che avevo visitato solo pochi giorni prima nella sua casa di Ramat Hasharon e che mi cantava con voce allegra “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba…”. Ma il suo volto non c’era, e il suo corpo giaceva da tempo fra le dune del deserto. Marco ha combattuto a ha perso la vita nonostante le sue ferme convinzioni di opposizione alla guerra. Come ricordava l’amico Franco Sabatello in un suo breve scritto su Ha-tikwah nel ‘74, “Marco aveva attivamente aderito al gruppo della Lista della Pace (Reshimath Shalom), e (…) sottolineava l’esigenza di approntare un piano di pace israeliano che tenesse in conto il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi e respingeva la politica dello status quo. (…) Se per tutti gli israeliani l’attacco siro-egiziano del 6 ottobre giunse improvviso e inatteso, per Marco ed i suoi compagni di pensiero esso fu forse solo imprevisto”. Due decenni dopo la madre di Marco, mia nonna, scriveva queste parole di ricordo: “C’è in casa una cassetta colma di lettere che negli oltre dieci anni della tua assenza arrivavano regolarmente a portare tra noi il soffio della tua vita con le notizie sempre attese con ansia. Dal Kippur del 1973 sono passati vent’anni, e ogni anno io apro quella cassetta e tocco sempre alcuni di quei fogli ancora ben conservati e leggo cercando di rivivere tanti avvenimenti famigliari, ma soprattutto di riascoltare le parole di amore del mio Marco. Nel grande, fiorito, ridente cimitero di Kiriath Shaul migliaia di giovani vite sono diventate altrettante lapidi con un nome e un numero: sulla tua c’è il 31. Gli anni che il Signore ci ha concesso di vivere con te”.

Gadi Luzzatto Voghera

(13 settembre 2013)