Yom Kippur – Né a destra, né a sinistra
Uno dei momenti più alti della poesia religiosa ebraica è rappresentato dalle Selichot (poesie penitenziali) e dalle Selichot di Ne’ilah in particolare. È il momento più saliente del Giorno di Kippur, quello che ci dà la Kapparah (espiazione). Possiamo dire il momento della verità, in cui emergono i messaggi definitivi che ci accompagneranno nel corso dell’anno entrante. La seconda Selichah di Ne’ilah (nel rito italiano seguito a Milano, Torino e Padova) è stata scritta da Moshe Ibn ‘Ezrà, lo stesso autore del Piyut (inno) con cui l’ultima Tefillah di Kippur esordisce: E-l norà ‘alilah. L’ultima strofa della Selichah Eloqim dàr meromèkha (“Dio che abiti nei cieli”) è significativa: qui la riportiamo nella pregevole versione rimata di Massimo Foa. “Chiudon del cielo le porte ed il sol tramonta già: / annunzia la nostra sorte, o Dio, con la Tua bontà. / Dovete, o porte, alzare le Vostre cime sante / al fin che possa entrare il popol mio trionfante. / Acque purificanti sul popol prediletto / per riscattare quanti loro Dio ti hanno eletto. / Questa è la strada da fare. Guidaci e sta’ a noi vicino” (Le Selichot in rima, Morashà 2008, p. 73).
Il monito: “questa è la strada da fare” è tratto, come molte espressioni delle Selichot, da versetti del Tanakh avulsi dal loro contesto. In questo caso si tratta di Yesha’yahu 30,20-21. Il profeta preannuncia il regno fedele di Chizqiyahu con le parole: “I tuoi occhi guarderanno in viso i tuoi Maestri… Questa è la strada da fare, che vogliate andare a destra o a sinistra”. L’ultima parte contiene certamente allusioni politiche, ma non nel senso moderno dei termini. La sinistra era in antico il nord e allude alla potenza assira che in quegli anni, complice un giro di alleanze, dava filo da torcere ai re di Eretz Israel. La destra, d’altronde, era il sud e allude alla potenza egiziana, cui essi si erano rivolti per aiuto. Il profeta Yesha’yahu ammonisce dunque il regime a trascurare vane alleanze politico-militari e a guardare soltanto davanti a sè. “Questa è la strada da fare”, ovvero la via del S.B., della Torah e delle Mitzvot. Anche Moshe Ibn ‘Ezra, dal suo canto, ebbe un problema analogo molti secoli dopo: visse a Grenada, in Andalusia, fra il 1070 e il 1140. Gli ebrei erano allora stretti fra l’Islam e la Chiesa. Il poeta li ammonisce a volgersi solo all’interno della propria tradizione senza voltarsi né a destra, né a sinistra!
Il profeta Yesha’yahu a sua volta si ispira a una terza fonte ed è nella Parashat Balàq. Qui si racconta del Profeta Bil’am che Balàq re di Moav aveva prezzolato affinché maledisse il popolo d’Israel sì che non attaccasse il suo territorio: un modo originale per affrontare un problema militare non attraverso la spada, bensì la Parola. Bil’am viene fermato dal S.B. il quale gli dice che Israel è un popolo benedetto per definizione, ma Bil’am accetta comunque l’invito dei messi di Balàq. Per fermarlo H. gli manda allora un angelo che ostacola il cammino alla sua asina: l’animale se ne accorge, ma non Bil’am che elude le reticenze dell’asina a proseguire e la colpisce per ben tre volte di seguito. La prima volta accade in un punto della via in cui non vi erano trincee: l’asina fa per deviare fuori strada, ma Bil’am riesce a riportarla sotto il proprio controllo. La seconda volta accade mentre l’asina cammina lungo un muro da un lato. Essa si schiaccia contro il muro premendo contro di esso il piede di Bil’am. La terza volta l’asina vede l’angelo in un punto in cui “non c’era modo di deviare nè a destra, nè a sinistra” (Bemidbar 22,26): l’asina allora “si accovaccia sotto Bil’am” e non si muove più.
Malbim spiega questo triplice episodio come una allegoria del rapporto fra il corpo materiale (chòmer, connesso con l’ebraico chamòr, “asino”) e lo yetzer ha-ra’ (istinto del male) rappresentato da Bil’am. Questi si ostina a voler attirare il corpo dell’uomo nella propria direzione, ma sotto la spinta delle indicazioni Divine (l’angelo) il corpo scantona e resiste. Ricordo un detto rabbinico secondo cui lo yetzer ha-ra’ attacca la persona successivamente in tre modi diversi. Prima le mostra quanto è libera e piacevole la propria opzione, ed è il primo incontro dell’asina in un luogo senza trincee. Se il corpo riesce a scantonare, non resta allo yetzer che tentare la seconda via: dimostrargli che la propria opzione risponde in realtà al dettato della ragione. Ma se neanche questa tentazione va in porto e la persona schiaccia letteralmente lo yetzer contro la barriera che la ragione stessa erige, non resta all’istinto che provare una via ulteriore. Egli dice all’uomo: “Guardati intorno: sei solo ed isolato nelle tue scelte, nessuno si comporta come te: lascia perdere!”. È il momento in cui l’uomo non ha apparente scampo: “Non c’è modo di deviare nè a destra, nè a sinistra”. Per sfuggire allo yetzer non gli resta allora che accovacciarsi, fermarsi e immobilizzarsi.
Ma qual è “la strada da fare” per caratterizzarci in quanto ebrei? Bil’am viene in definitiva costretto a benedire il popolo d’Israele. Le sue prime parole sono significative. “Lo vedo dall’alto delle montagne, lo scorgo dall’alto delle colline”. Monti e colli alludono secondo il midrash ai Patriarchi e alle Matriarche (comm. a Bereshit 49,26) e il primo richiamo, dice il Malbim, si riferisce allo yichus (lignaggio) così importante per noi ebrei, che sappiamo esattamente chi sono i nostri padri e le nostre madri. “È un popolo che se ne sta per suo conto e non si annovera fra i popoli”: il secondo monito tocca la nostra scelta di non mescolarci agli altri. “Chi riesce a contare la polvere d’Israel”: qui Bil’am allude al fatto che il numero non ha per noi alcuna importanza, ed è il suo terzo argomento. “Possa la mia anima morire della morte dei giusti”: il quarto e ultimo soggetto riguarda la dimensione dei valori etici che caratterizza la nostra cultura rispetto a tutte le altre. Sono dunque questi quattro punti a costituire “la strada da fare. Guidaci e sta’ a noi vicino”, come l’angelo davanti all’asina di Bil’am. Ma a differenza di quest’ultimo, che aveva la vista annebbiata, “i tuoi occhi guarderanno in viso i tuoi Maestri”.
Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche settembre 2013
(13 settembre 2013)