L’incerto esordio
Inizia il nuovo anno ebraico mentre continua quello civile. I segni all’orizzonte non sono tra i più avvincenti. L’incertezza e l’indeterminatezza sono i due indici più significativi. È non meno vero, come dice il sociologo Ulrich Beck, che le nostre sono società del “rischio”, basate su un presupposto così enfatico da essere, alla resa dei conti, improbabile, ossia quello di potere prevedere e controllare, anticipandolo, tutto. Fatto che è impossibile, confrontandosi con un passato, che ci siamo invece velocemente dimenticati, dove la precarietà era un fatto tanto ovvio quanto comunemente accetto. Tuttavia, gli scenari che si configurano sono comunque legati ad una condizione dove il segno negativo rimane il dato prevalente. Ci sono i mille problemi del nostro Paese, che ricadono direttamente sulle nostre famiglie. C’è poi una condizione, riguardante gli assetti geopolitici, a partire da quelli mediterranei, che risulta non solo imprevedibile ma anche, per più aspetti, incomprensibile. La situazione della Siria, dove un potere vecchio e feroce, quello della famiglia Assad, e del clan alauita ad essa collegato, tarda ad inabissarsi dinanzi ai colpi violenti dei un’opposizione islamista non meno truculenta, ne è lo specchio al contempo materiale e simbolico. Sempre più spesso l’opzione sembra essere tra la padella e la brace. La lotta non è più tra il bene e il male, ma tra due ordini diversi di male. Le visioni manichee, falsamente rassicuranti, non sono più in grado di interpretare cosa sta succedendo. Forse non lo sono state mai del tutto ma oggi, in particolare modo, ci paiono inadeguate. In Egitto, apparentemente, le bocce paiono essere ferme, con lo stallo dei Fratelli musulmani e la prevaricazione dell’esercito. Una sorta di golpe istituzionale, consumatosi con l’assenso di una parte consistente della popolazione e con il silenzioso beneplacito delle istituzioni internazionali, Ma sotto le braci il fuoco cova. Improbabile che si diano, nei tempi a venire, rivoluzioni che nessuno saprebbe come condurre. Tuttavia, è plausibile che la gravissima situazione, soprattutto economica, in cui versano quasi i quattro quinti della popolazione, sia destinata a pesare, anche a breve, sulle dinamiche politiche del Cairo. Quello a cui stiamo assistendo è quindi piuttosto uno stallo temporaneo, destinato poi a dare fiato ad altri periodi di instabilità. Quanto abbiamo scoperto, tanto più in questi ultimi due anni, è allora la nostra difficoltà di interpretare quanto succede con la strumentazione che abbiamo a disposizione. Già si è detto che l’approccio bipolare non funziona più in sé. La questione sempre meno è – e sarà – di definire una volta per tutte da quale parte stia una presunta ragione, intesa in sé come valore assoluto, alla quale quindi aderire immediatamente, spostandosi piuttosto su quali e quante potranno essere le alleanze perseguibili, di tempo in tempo, per attenuare gli impatti peggiori. Non si tratta di relativismo valoriale e, men che meno di cinismo, ma di obbligato realismo. Il declino americano è in atto e non è ascrivibile ad una sola presidenza che, semmai, registra, nella sua inerzialità, aspetti significativi dell’oggettiva perdita di potenza propulsiva del proprio Paese. Un fatto, quest’ultimo, legato a molti fattori ma, prima di tutto, alla riconfigurazione delle egemonie a livello mondiale. Lo scenario internazionale è ora nettamente multipolare. Ma ciò non indica un incremento della democrazia collettiva, essendo semmai il segno di un riassetto globale dei centri di potere politico e di interesse economico. Un processo in cammino, quello della globalizzazione, che ci congeda da un Novecento nel quale siamo cresciuti, e al quale ci rifacciamo mentalmente per comprendere la trama del nostro divenire, senza che ciò ci risulti sufficientemente funzionale. Il declino del bipolarismo, negli ultimi venticinque anni, non ha decretato la supremazia di un polo, quello occidentale, sull’altro ma piuttosto la movimentazione degli assetti e degli equilibri in una sorta di perturbazione permanente. Le crisi in atto nelle società mediterranee e mediorientali rientrano di buon grado all’interno di questo quadro. A queste poche note di inizio anno aggiungo un breve ricordo di Marshall Berman z.l., studioso e accademico americano, perito prematuramente l’11 settembre 2013, noto in Italia soprattutto per un libro, “Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. Elogio della modernità” che quando uscì nel nostro paese, più di vent’anni fa, raccolse i favori dei lettori e della critica. Nel farlo lascio la parola ad un altro intellettuale, Edmondo Berselli, anch’egli venuto a mancare anzitempo, che così diceva: “Ho conosciuto Berman a metà degli anni Ottanta, e con lui e Ugo Berti siamo andati a Venezia a visitare una storica mostra sui futuristi. Berman ammirava ogni bruttura architettonica nella campagna ferrarese, fabbriche dismesse, ruderi industriali, esclamando: “Look at that beautiful building, it’s so modern!” Tutto il moderno gli piaceva. Era un fanatico della modernità. Aveva il volto dell’ebreo cosmopolita: era una specie di elefante barbuto, nello stesso tempo goffo e agile, divertentissimo da osservare mentre in un bar veneziano mangiava la pizza con le mani impiastricciandosi le dita, se le ficcava in bocca sporcandosi la barba senza minimamente preoccuparsene; e per scattare una foto al campanile di San Marco, alla ricerca della giusta inquadratura, si sdraiava per terra, abbastanza felice, lui che era un uomo sfortunatissimo, perseguitato da disgrazie terribili, una specie di Giobbe della modernità” (Edmondo Berselli, Adulti con riserva, p. 170)
Claudio Vercelli
(15 settembre 2013)