“La mia lotta per la libertà”
Lì, fra la gente, in quel mattino assolato di settembre, la grande piazza aperta sul mare traboccava di camicie nere. I ragazzi dovevano starsene schierati per rendere omaggio a un Mussolini impettito, tronfio più che mai nella sua visita a Trieste. La città ponte fra le genti d’Europa, la sfavillante capitale cosmopolita di tutte le minoranze era ormai ridotta a uno scenario di cartapesta e il dittatore si innalzava per arringare un oceano di folla. In quella piazza, assieme a molti altri ebrei triestini, c’era anche lui, Maurizio Nacmias, 15 anni. Convinti di essere italiani in mezzo ad altri italiani. Molti illusi di un futuro radioso che proprio in quel mattino cominciò, con l’avvio della politica apertamente razzista del fascismo, a mostrare le sue crepe. Gli ebrei di Trieste poterono ascoltare con le loro orecchie l’annuncio dell’avvio di una legislazione per discriminarli, perseguitarli. Leggi infami e indegne di qualunque società civile che infangarono l’onore dell’Italia e condussero la nazione alla vergogna e alla rovina, ai campi di sterminio e alla catastrofe. Ognuno, su quella piazza, consapevolmente o meno, fu avvertito che era il momento di compiere una scelta, che in ogni caso la vita non sarebbe stata più quella che era prima.
“Certo che stavo in piazza. Ho sentito benissimo le sue minacce, ma allora Mussolini non mi aveva fatto paura. Ero giovane, forte, spavaldo. Temerario come tutti i ragazzi della mia età. E avevo un’innata fiducia nel futuro”. Maurizio Nacmias torna oggi su quella piazza piena di sole, una delle più belle d’Europa, ormai ripulita dagli orrori dell’odio e delle persecuzioni. Stringe in pugno un suo trofeo che testimonia di quelle vicende drammatiche e indimenticabili. E racconta.
Nonostante la spavalderia, le cose cominciarono a prendere una brutta piega, o no?
Ma certo. Lo abbiamo potuto vedere subito. I miei compagni di classe all’Istituto tecnico che frequentavo non sapevano dove voltare lo sguardo per evitare di salutarmi. Solo poche settimane dopo è venuto il bidello a dirmi di prendere la mia roba e di tornare a casa. Sono rimasto da un momento all’altro senza far niente. E’ la storia di tutti i ragazzi ebrei di quell’età. Il momento delle scelte. Certo. Mio padre ebbe la buona idea di mandarmi a imparare un mestiere in privato. Ho cominciato a impratichirmi per diventare odontotecnico e questo è rimasto il mestiere della mia vita.
Che aria si respirava in città nell’autunno del 1938 e nei mesi che seguirono?
Il clima di intimidazioni e di odio era cominciato anche prima della visita di Mussolini. Cercavano di educare la gente a odiare gli ebrei e a Trieste ci riuscirono molto bene. Ma non avevo paura. Cercavo di andare avanti, di amare le qualità della vita.
Chi la conosce assicura che nella sua storia ha sempre dimostrato quella passione di vivere la vita e la natura che è il segno di molti triestini. Si riconosce in questo ritratto?
Certo che ho amato e amo questa città meravigliosa. E il suo scenario di strade e di natura. La spavalderia di noi giovani, il gusto della competizione leale. Il gusto della lotta. Sì, la mia vita è stata segnata dal gusto della lotta. La lotta non come prova di prepotenza, come esercizio della forza, ma come capacità di vincere con la lealtà, l’energia e l’intelligenza.
Parliamoci chiaro. Lei è stato per tre volte campione italiano di lotta libera e di lotta greco romana. Ha atterrato con poche mosse sportivi che sembravano imbattibili, ha tenuto alto l’orgoglio dello sport italiano a livello internazionale, ha sventolato il tricolore in due Maccabiadi, infine ha allenato generazioni di lottatori insegnando tecniche nuove che li hanno portati al successo.
È vero. Ma quello che mi sembra più incredibile è come tutto questo possa essere avvenuto in quegli anni. Da giovani si è coraggiosi, ma talvolta anche incoscienti.
Vuol dire che i suoi successi sono cominciati durante le persecuzioni?
Prima dell’arrivo di Mussolini a Trieste avevo conosciuto per caso uno sportivo straordinario, Albino Vidali, che gestiva lo stabilimento balneare di Punta Sottile, là dove oggi cade il confine fra l’Italia e la Slovenia. Mi ha notato durante l’estate e mi ha portato nella palestra dove allenava alla lotta. Tutto è cominciato così, quasi per caso. Dopo i primi successi sono divenuto vigile del fuoco volontario e sono entrato nella squadra dei lottatori dei Vigili del fuoco di Trieste. Mentre la città si dedicava alla caccia agli ebrei e i miei coetanei venivano cacciati dalle società sportive e dal Club Alpino, di me sembrava che non si fosse accorto nessuno. Con Vidali, che era maresciallo dei pompieri, c’era il suo collega Guido Apollonio. Sono loro che mi hanno protetto e mi hanno insegnato a lottare. Ma non solo. Mi hanno insegnato ad avere coraggio anche di fronte alle peggiori avversità. Per me sono stati degli eroi e hanno rappresentato gli ideali di quei vigili del fuoco.
Lei non doveva proprio corrispondere ai sudici stereotipi di ebrei vigliacchi e malaticci che la subcultura della Difesa della razza opponeva all’immagine di una razza superiore giovane, sana e vincente.
Già. Sta di fatto che siamo andati avanti così per anni. I giornali parlavano dei miei successi come se niente fosse.
Nessun problema?
Beh, al momento di consegnarmi il trofeo Raicevich, che era un premio molto ambito per un peso medio come me, i giudici si interrogarono sospettosi sul suono del mio cognome…
E come se la cavò?
Ho detto loro con la massima faccia tosta che a Trieste è normale avere nomi strani, che è una città cosmopolita. Ci hanno creduto e hanno smesso di fare domande. Il giorno dopo la Gazzetta dello Sport riportava la notizia della mia vittoria, il mio nome stava nel titolo. Con una mossa avevo atterrato un peso massimo. Ormai era il 1941, probabilmente ero l’unico ebreo a gareggiare in Italia.
Fino a quando è riuscito ad andare avanti?
Con l’intensificarsi delle azioni antisemite le cose sono andate sempre peggio. Gli ebrei di Trieste sono stati perseguitati in una maniera infame ancora prima dell’arrivo dei tedeschi. Mio padre, che era andato ad aiutare suo fratello per cercare di proteggere il negozio di abbigliamento della sua famiglia, è stato aggredito dagli squadristi. Non gli hanno fatto nemmeno togliere gli occhiali. Lo hanno lasciato sul marciapiede, in pieno centro, in fin di vita. Della cosa si è venuto a sapere e il nuovo comandante dei pompieri, il colonnello Giorgio Conighi appena arrivato da Fiume, mi ha subito allontanato.
Ma ha continuato a lottare?
Sì, ma ormai come partigiano, per scacciare i banditi che avevano distrutto la nostra vita. Subito prima dell’arrivo dei tedeschi a Trieste siamo riusciti a rifugiarci a Firenze, da lì sono entrato nella brigata Ponte Buggianese che portava il nome dell’anarchico pistoiese Silvano Fedi. Era un gruppo molto agguerrito, ci siamo dedicati soprattutto a far deragliare i treni che servivano ai fascisti e ai tedeschi. Alla fine ho incontrato la Quinta armata e il generale Mark Wayne Clark.
Anche una volta superata la Linea Gotica, la strada per tornare a casa, a Trieste, restava molto lunga.
Dopo l’arrivo degli Alleati, ma anche dopo la Liberazione di Trieste ho preferito restare a Firenze. Mi avevano offerto un buon lavoro e mi trovavo bene in mezzo a gente che mi aveva aiutato con coraggio e lealtà. Non mi sentivo di tornare là dove mi avevano cacciato con tanto odio. Nel 1949 ha prevalso la nostalgia e sono tornato a casa, quando la città era ancora un territorio libero amministrato dagli angloamericani.
Che situazione ha trovato?
La situazione era ancora disastrosa. I pochi sopravvissuti erano stati depredati di tutto. Ricominciare una vita normale non era facile e non ce l’avremmo fatta senza l’aiuto della Comunità ebraica, che ci ha assistiti come poteva. Ma la vita ha ripreso il suo corso.
E la lotta?
Ho ricominciato subito con le mie passioni, per gareggiare e per allenare altri giovani. La lotta mi ha portato in giro per il mondo e sono fiero di aver fatto parte delle prime formazioni italiane che hanno partecipato alle Maccabiadi quando lo Stato di Israele aveva appena conquistato la propria indipendenza. Poi con il passare degli anni ho cominciato a volgermi al mare, a lottare con le onde. Proprio qui, a pochi metri da dove 75 anni fa sbarcò Mussolini, tengo ormeggiata la mia barca a vela. Anzi, l’ho appena tirata su. Questa è la stagione giusta per lavorare alla manutenzione, prima di alzare ancora le vele.
A 90 anni, non è ancora stanco?
Bisogna guardare avanti senza avere paura. Nessun orizzonte, a settembre, può spiegarlo più chiaramente di quello che si ammira da questa piazza. Basta ricordarsi di non volgere la spalle al mare, come abbiamo fatto noi in quel giorno di 75 anni fa.
Guido Vitale, Pagine Ebraiche ottobre 2013
Ho ancora voglia di alzare le vele
“Vincitore assoluto è stato Maurizio Nacmias, non ancora ventenne, militante nelle file dell’Ottantasettesimo Vigili del Fuoco di Trieste dal luglio dello scorso anno. L’allievo dell’azzurro Guido Furlani nella finalissima si è preso il lusso – pur appartenendo alla categoria pesi minimi – di schienare il bolognese Giannantoni che godeva di un vantaggio di peso di ben dieci chilogrammi. Il vincitore è arrivato al primato assoluto dopo sei vittorie consecutive superando con bravura e velocemente i suoi avversari e dimostrando, inoltre, ottimo stile e agilità. Morabito, Simonetti, Bergonzoni, Grassi, Lorenzini sono stati liquidati con netta superiorità…”. E’ il 1941 e l’Italia sprofonda ormai nella tragedia del Secondo conflitto mondiale. Gli ebrei, perseguitati, sono esclusi, intimiditi e ridotti al silenzio. Eppure la Gazzetta dello Sport riporta trionfalmente in prima pagina la vittoria folgorante di un ragazzo ebreo che si afferma da campione ai campionati di lotta. Nessuno si accorge che le nuove regole imporrebbero la sua esclusione, che non potrebbe gareggiare, rappresentare il corpo dei Vigili del fuoco e men che meno finire per le sue glorie sulle prime pagine dei giornali sportivi. O forse qualcuno sa, ma preferisce coraggiosamente tacere. La sua performance è in ogni caso da prima pagina. Al famigerato trofeo Raicevich, che scalino dopo scalino mette liberamente in gara fra di loro atleti di peso diverso, Nacmias, che pesa 69 chili, sbaraglia tutti e infine mette a terra un peso massimo liquidandolo con una mossa. “Il segreto – spiega oggi mostrando il trofeo conquistato allora a Trieste in piazza Unità, proprio lì dove Mussolini, 75 anni fa, annunciò davanti a lui quindicenne le persecuzioni – stava nella tecnica. La lotta non è solo una prova di forza, ma anche di strategia, di intelligenza”. “Lo sport mi ha aiutato a superare i momenti più difficili nella vita, è stata la mia grande passione. Ma per noi, giovani d’allora, forse queste cose avevano un sgnificato diverso da quello che potrebbero avere oggi. Ora ho abbandonato gli ambienti della lotta. Sono riuscito a sviluppare e insegnare tecniche e strategie innovative che esaltavano l’intelligenza più della forza. Per gareggiare sono stato a Praga e a Budapest, a Sofia e a Sarajevo, a Zagabria e a Belgrado, a Vienna e a Gerusalemme. Abbiamo avuto l’onore di portare i colori dell’Italia davanti a David Ben Gurion. E’ stato appassionante, ma non so se ho fatto la cosa giusta. Lo sforzo che deve compiere un lottatore negli anni lascia un segno e oggi mi sento un po’ a pezzi”. Eppure alla sua età non è ancora stanco di andare per mare. “In questa stagione – conclude – tanti appassionati pensano al golfo di Trieste per le grandi regate. A metà ottobre c’è l’appuntamento con la Barcolana e 25 mila velisti si danno appuntamento nell’Alto Adriatico. Ho partecipato tante volte, ma adesso ho detto basta. Soldi, sponsor, imbarcazioni supertecnologiche, vip che si pavoneggiano. Non fa per me. Ne ho viste troppe. Quando alzo le vele, voglio puntare verso la libertà”.
(Foto di Giovanni Montenero)
(Il disegno è di Giorgio Albertini)