Memoria – Ancora campione
L’Osservatore Romano in distribuzione questo pomeriggio con data mercoledì 25 settembre ha invitato il giornalista di Pagine Ebraiche Adam Smulevich a raccontare come le inchieste del giornale dell’ebraismo italiano abbiano portato alla decisione dello Yad Vashem di conferire al campione Gino Bartali l’alto onore di Giusto tra le Nazioni. Ecco il testo.
Campione in corsa, campione fuori dal contorno agonistico. Il pubblico riconoscimento dello Yad Vashem rappresenta l’attesissimo suggello a una storia memorabile, la storia di Gino Bartali il Giusto. Forse Ginettaccio sarebbe scontento di questo tributo in virtù del proverbiale “Il bene si fa, ma non si dice” che tanto l’ha reso celebre in Italia e nel mondo. Quel coraggio, quell’eroismo silenzioso di cui ancora oggi non si riesce a quantificare con esattezza l’immensa portata, merita però di essere conosciuto e apprezzato. Soprattutto da quelle nuove generazioni che nello sport, e in particolare nei suoi campioni, vedono un imprescindibile punto di riferimento.
È in quest’ottica che si inserisce l’appello, per la ricerca di nuove testimonianze, pubblicato oltre tre anni fa da Pagine Ebraiche (“Un albero anche per Ginettaccio”, aprile 2010) con la collaborazione di Sara Funaro. Obiettivo: arrivare alla piantumazione di un albero alla sua memoria nel giardino dove sono omaggiati i nomi di quanti, a rischio della propria esistenza e senza percepire alcun compenso, scelsero la strada del coraggio e rifuggirono l’indifferenza.
Di Bartali era già noto l’impegno come staffetta clandestina ma a mancare, per lungo tempo, è stata la dichiarazione diretta di un sopravvissuto o di un suo discendente. Nel 2005 il ciclista fu insignito della medaglia d’oro al valor civile dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi “per aver salvato la vita a circa 800 ebrei”. Stante questo riconoscimento, restavano però degli interrogativi irrisolti. Chi erano questi ebrei? Quali i loro nomi, i loro volti, le loro storie? Materiale di cui lo Yad Vashem, per dar seguito alla pratica, aveva assoluto bisogno.
I motivi di questa lacuna sono noti: oltre alla ritrosia di Ginettaccio, corredata da un’anedottistica leggendaria, la mancanza di un contatto diretto tra il ciclista e i tanti – uomini, donne e bambini – che beneficiarono del suo altruismo. Il corridore agiva infatti a stretto raccordo con una serie limitata di interlocutori: uomini della Delasem, esponenti del clero toscano, falsari che gli procuravano nuove identità per ebrei e perseguitati politici in fuga dall’Italia.
Il primo incontro con Andrea Bartali, principale custode della memoria del padre, risale a quel periodo di rinnovato fermento attorno alla figura di Ginettaccio. Fu un pomeriggio memorabile, davanti a un caffè caldo e in compagnia della moglie di Gino, Adriana. Tanti gli argomenti toccati: dalla guerra alle vittorie nei grandi giri, dalle idee politiche alla profonda fede religiosa di cui tutti erano partecipi. Impossibile non essere travolti da quella che Andrea, con affetto, ha chiamato “una storia d’amore”.
L’amore, per Bartali, è stata la vita e la dignità dell’uomo prima di ogni altra cosa. È quanto emerge con le numerose testimonianze raccolte in seguito a quell’appello. Una su tutte, quella di Giorgio Goldenberg, descrive lo straordinario itinerario tracciato dal campione negli anni più bui. È la storia di un giovane ebreo fiumano, nascosto insieme alla sua famiglia in una casa in via del Bandino a Firenze. Giorgio, la sorella Tea, i genitori: quattro vite umane strappate alla barbarie della Shoah. L’iniziativa è di Gino e di suo cugino Armandino Sizzi, un duo affiatato ripetutamente esposto a pericoli ma incrollabile nella sua determinazione. Nessuno, oltre a loro, sapeva. Neanche Adriana, la compagna di una vita. Neanche una volta cessate le ostilità, quando tutto sarebbe stato più facile. Gino si è portato questo segreto nella tomba finché Giorgio, raggiunto grazie all’intermediazione di Nardo Bonomi, ha rotto un silenzio protrattosi per quasi 70 anni. “Sono vivo – ha raccontato a Pagine Ebraiche – perché Gino Bartali ci nascose in cantina”. Pochi giorni e una testimonianza a sua firma sarebbe arrivata nei cassetti dello Yad Vashem dando vigore a un carteggio già arricchitosi di molto materiale inedito
La stessa procedura è stata infatti seguita da due testimoni cui il Memoriale dei Giusti riconosce, come si evince dalla scheda pubblicata ieri sul proprio sito ufficiale, un ruolo decisivo nell’intera vicenda: Renzo Ventura e Giulia Donati. Di Renzo Ventura, la cui famiglia fu tratta in salvo grazie ad alcuni documenti falsi, resta particolarmente impresso un momento: l’abbraccio, nell’inverno del 2010, con Andrea Bartali e una frase sussurrata all’orecchio (“Senza suo padre non sarei qua”) che dà il senso dell’immensa gratitudine che ancora oggi vive attraverso le generazioni.
Giulia Donati, la prima testimone raggiunta grazie a Pagine Ebraiche, è invece protagonista di una vicenda di tutt’altro taglio. La sua è la storia di un clamoroso equivoco. Nascosta a Lido di Camaiore dalle sorelle Pacini, non ricevette la carta di identità recapitatagli al portone di casa perché Bartali non fu riconosciuto. Un episodio che avrebbe potuto gettarla nello sconforto e che le fu rivelato soltanto a Liberazione avvenuta. Oggi, dopo tanti anni, il bisogno di raccontare e condividere un passato lungamente rimosso. Il passato di un uomo Giusto che vive ancora tra noi.
Adam Smulevich
(24 settembre 2013)