Portico d’Ottavia 13, la casa ferita
Un’antica casa medievale ormai degradata, un vasto cortile rinascimentale. È qui che il 16 ottobre del 1943 i nazisti arrestano più di trenta ebrei, un terzo dei suoi abitanti, tra i più poveri della Comunità. Sono per lo più vecchi, donne e bambini. Altri 14 saranno catturati nei mesi successivi. A loro è dedicato Portico d’Ottavia 13 (Laterza editore), lo straordinario e attesissimo atto d’amore della storica Anna Foa, a lungo inquilina in quei luoghi, da oggi nelle librerie italiane.
(…) Ma vediamo che cosa è successo nella Casa all’alba di quel 16 ottobre, entriamo nel portone e risaliamo le scale proprio come devono aver fatto i nazisti di Dannecker, cominciando dal pianterreno, da quelle porte che si aprono sul cortile. Ce lo immaginiamo, il vasto cortile con le sue colonne di marmo, pieno di nazisti armati, che iniziano a bussare impazienti alle porte, usando il calcio del fucile quando non c’è risposta. Qui, alla seconda porta sulla sinistra, aveva il suo deposito di stoffe Settimio Calò, venditore ambulante, un uomo così gentile che lo avevano soprannominato, con il gusto degli ebrei di “piazza” per i soprannomi, il “cavaliere”. Non abitava là, ma proprio di fronte, al numero 49 di via del Portico d’Ottavia, anche se aveva il suo domicilio ufficiale al numero 14, la porta successiva al 13, nello stesso edificio. Come tanti altri uomini quella mattina era andato a mettersi in coda all’Isola Tiberina per fare rifornimento di sigarette. Al ritorno non ha trovato più sua moglie, Clelia Frascati, e i suoi dieci figli, dai ventidue anni ai sei mesi, oltre ad un nipotino dodicenne che si era fermato a dormire da loro. Tutti deportati, tutti morti all’arrivo ad Auschwitz. Ora sulla sua casa del numero 49 è stata apposta una lapide che lo ricorda. Entrando sulla destra, c’era la casa della portiera, la signora Rosa. Con il marito Umberto, Rosa era scappata da Roma subito dopo l’episodio dell’oro, rifugiandosi a Fossa, presso L’Aquila. Invece il nuovo portiere, Camillo, non era ebreo. Probabilmente non era ancora lì il 16 ottobre, era passato troppo poco tempo perché Rosa fosse già sostituita. Ma sappiamo che lui e sua moglie Ada erano delle brave persone, pronte ad aiutare gli abitanti ebrei della Casa. Sappiamo che molti sono stati i portieri che quel giorno e anche successivamente hanno avvisato gli inquilini ebrei di scappare e li hanno aiutati a nascondersi. Molti altri, invece, già usati dal regime negli anni precedenti come informatori, hanno collaborato con i tedeschi, hanno rifiutato di dare rifugio ai fuggiaschi, hanno minacciato di denunciare chi si era nascosto nelle case dei non ebrei. Abbiamo un fiume di testimonianze sia in un senso che nell’altro. Più avanti, la porta dopo la casa della portiera, nell’appartamento sulla destra prima del porticato abitava la vedova di Mosè Sonnino, Sara Moscati. Sara, con tutta la famiglia Sonnino, si era nascosta a Capranica già prima del 16 ottobre. Ma proprio in quei giorni sua figlia Costanza, che era al nono mese di gravidanza, era tornata a Roma per partorire, lasciando a Capranica con il resto della famiglia il marito Vittorio Moscati e il figlioletto Giovanni di due anni. Non era tornata nella casa dove abitava con i suoceri, in via dei Genovesi 25, ma in quella della madre al Portico d’Ottavia, dove aveva vissuto da ragazza e dove le tenne compagnia la sorella Speranza, con i suoi due figli, Giuditta di quattordici anni e Leone di dodici. Speranza, sposata con Pacifico Sciunnach, non abitava lì ma in via di Santa Maria del Pianto 10, però quella notte si era fermata a Portico d’Ottavia con la sorella. All’alba del 16 ottobre furono prese tutte e due con i due bambini e all’arrivo ad Auschwitz tutti furono inviati subito alle camere a gas. È una storia molto simile a quella di Marcella Perugia, una giovane di ventitré anni, sposata con Cesare Di Veroli, arrestata il 16 ottobre a via di Santa Maria del Pianto e deportata insieme alla sorella Clelia e i due bambini Pacifico di sei anni e Giuditta di sette. Anche loro si erano rifugiati fuori Roma, a Velletri, e anche Marcella era tornata a Roma per partorire con l’aiuto della sorella. Marcella Perugia avrebbe dato alla luce un bambino al Collegio Militare, prima di essere deportata. Il bambino è rimasto senza nome. È sopravvissuta invece una figlia di Marcella, di nome Rebecca, che all’epoca aveva due anni e che non era tornata a Roma con la madre, ma era rimasta a Velletri. Di fianco all’abitazione di Sara Moscati, sotto il porticato, abitava la famiglia Terracina. Era una famiglia numerosa, che viveva tutta in una stanza, composta dal padre Giacomo, dalla moglie Elisabetta Fornari e da ben otto figli: Letizia, Raffaele, Angelo, Enrica e Rosa che erano gemelle, Flora, Alberto e la più piccola Celeste. La madre morì nel 1928 e Alberto e Celeste, rispettivamente di sette e quattro anni, furono mandati all’Orfanotrofio Israelitico. Nel 1943, Flora era sposata con Angelo Moresco e abitava in via del Conservatorio, mentre già prima del 16 ottobre Giacomo si era rifugiato a Norcia con i figli più piccoli. Prima dei Terracina, in quell’appartamento che guardava verso l’interno aveva abitato la famiglia di Donato Di Veroli, con la moglie Letizia Di Tivoli e gli otto figli (Rosa, Mosè, David, Leone, Giuditta, Celeste, Fiorina e Giacomo), poi trasferitasi a vicolo Costaguti 22. Donato con le figlie Celeste e Giuditta e il padre ottantenne Mosè furono presi il 16 ottobre a vicolo Costaguti e furono uccisi già all’arrivo ad Auschwitz. David fu arrestato dai fascisti il 13 dicembre del 1943, mentre era in treno per Firenze e deportato. Anche suo fratello Leone fu deportato. Furono ambedue tra quelli che fecero ritorno. David Di Veroli era un bambino quando, nel loro appartamento al pianterreno in via del Portico d’Ottavia 13, si sentì un rumore spaventoso e una colonna che si trovava all’interno, una colonna antica uguale a quella che ancora si trova nel cortile, sprofondò nel sottosuolo senza essere mai più ritrovata. Era finita nel Tevere, si diceva, alludendo alla rete di cunicoli che passavano sotto la Casa e di cui molti sbucavano nel fiume. Restò nella Casa la leggenda di quella colonna misteriosamente scomparsa. Sempre al pianterreno, subito a sinistra del cancello, abitava Angelo Di Segni, sfasciacarrozze, figlio di Giovanni Di Segni ed Emma Sabatello che abitavano al numero 9. Angelo si era trasferito là al momento di sposarsi, come aveva fatto anche suo fratello Rubino, che abitava al piano superiore. Era nato nel 1906 e viveva con la moglie Ines Pavoncello e le due figlie Emma e Rina. Sua moglie, che lavorava con lui, si era molto spaventata quando i nazisti avevano fatto la richiesta dell’oro e aveva convinto il marito ad andarsene e a nascondersi fuori Roma. Angelo aveva chiuso il suo magazzino a via dei Cerchi, aveva chiesto a degli amici cattolici di Trastevere di vendere le macchine che erano nel magazzino e di affidarne il ricavato a sua madre Emma, e aveva affittato una casa a Fossa, in Abruzzo, dove si erano subito trasferiti. Lì si erano già nascosti la portiera e suo marito e sempre a Fossa Angelo fu raggiunto, ma solo per pochi giorni, da suo fratello Rubino e sua cognata Cesira con i bambini. Il 16 ottobre i Di Segni non erano quindi a Roma e per molti giorni non seppero nulla di quello che era successo, nemmeno che la madre di Angelo e quasi tutti i suoi parenti erano stati presi nella razzia. Fu il marito della portiera, Umberto, che era sceso per poche ore a Roma, a portare la notizia. A Fossa si sapeva che erano ebrei, anche se loro non l’avevano detto e fingevano di essere semplicemente degli sfollati, in fuga da Roma dopo il bombardamento di San Lorenzo. Quando però i tedeschi decisero di porre un loro Comando a Fossa, furono convinti dagli altri abitanti ad allontanarsi e raggiunsero a piedi Casentino, un paesino sperduto a venti chilometri di distanza e a seicento metri d’altezza. Qui restarono fino alla fine della guerra, vivendo in casa di una famiglia che li aiutò in tutti i modi: la madre, Felicetta, era una vedova bianca, aveva cioè il marito in America, che poi raggiunse con il resto della famiglia nel dopoguerra. Felicetta aveva due figli e la più piccola, Anita, divenne amica intima di Emma, la più grande delle due bambine Di Segni, tanto che sono ancora oggi in contatto. I ricordi che Emma ha di questi mesi sono bellissimi. Felicetta era rispettosa delle abitudini alimentari della famiglia Di Segni, anche se essi non dissero mai di essere ebrei, e quando comprese che non mangiavano la carne di maiale cominciò a cucinare senza mettercela in modo che potessero mangiare anche loro. (…).
Anna Foa
(3 ottobre 2013)
(La foto è di Giovanni Montenero)