Rabbini in Vaticano
Venerdì scorso una delegazione formata da una trentina fra rabbini e dirigenti comunitari romani, guidata dal rabbino capo Riccardo Di Segni, dal presidente della Comunità Riccardo Pacifici e dal presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna, si è recata in visita al Vaticano per incontrare il nuovo pontefice, papa Francesco. Siamo stati accolti in un’ala del palazzo alla sinistra della Chiesa, all’ultimo piano, e dopo esser passati attraverso una lunga teoria di corridoi sfarzosi siamo entrati in un grande salone riccamente adornato, dove abbiamo atteso che si svolgesse il colloquio privato fra il Papa, il Rabbino capo e il prof. Gavriel Levi. Poi ci hanno condotto attraverso un’altra serie di lunghi corridoi verso una sala più piccola, dove si sono tenuti i discorsi ufficiali del Rabbino e del Papa (che ha intercalato a braccio un paio di interventi non presenti nel discorso scritto). Al termine, il Papa ha salutato ciascun membro della delegazione, e ha ascoltato con attenzione e curiosità alcune richieste rivoltegli.
È interessante leggere il racconto della visita in Vaticano che all’inizio del 1936 fece rav David Prato, all’epoca rabbino capo di Alessandria e da lì a pochi mesi rabbino capo di Roma. Lo scopo della visita era perorare la causa degli ebrei polacchi, sui quali incombeva la minaccia di una legge contro la shechità, la macellazione rituale. L’udienza in realtà fu con il Cardinale Pacelli, perché il Papa era “vecchio e indisposto”. Ecco come nei suoi Diari il rabbino Prato descrisse la visita:
“Quando oltrepasso la porta di bronzo gli Svizzeri ai quali declino il mio nome, mi fan tanto di presentar l’arma: la mia visita era stata preannunziata. Si comincia bene. Avevo visitato una parte del Vaticano molti anni prima ma nella parte riservata al pubblico, non in quella degli uffici e degli appartamenti privati. Una meraviglia, uno splendore, un incanto inverosimile. All’impressione provata che colpiva il mio animo si aggiungeva per aumentare il mio imbarazzo la completa ignoranza del protocollo e del cerimoniale. Il Cardinale Pacelli era dopo tutto in quel momento la più alta autorità cattolica dopo il Papa che non aveva quasi più la possibilità di esercitare nessun controllo sugli affari e sulla direzione spirituale del mondo cattolico. Come si chiamava il Cardinale, e di quale attributo ci si doveva servire rivolgendogli la parola, e di dove si passava? Facendo lo gnorri mi faccio istruire dall’usciere che mi accompagna all’ascensore […]. Passo attraverso una lunghissima galleria – quella delle carte geografiche – dalla quale si scopre un meraviglioso panorama e sono introdotto subito nell’appartamento del Gabinetto del Cardinale. Sale, saloni e salottini, uno più bello dell’altro, dovunque porte e controporte. Domina il broccato rosso, dovizia di quadri non tutti di soggetto religioso, di gobelins, di statue di sopra mobili. Dov’è la povertà e l’umiltà francescana? Tuttavia è imponente, impressionante. È così che la Chiesa si è imposta. Alto, non severo, in veste cardinalizia purpurea […] Pacelli mi dà a baciare la mano che sfioro. Gli espongo pacatamente, ma con una certa commozione interna (quando mai un rabbino italiano in questi ultimi decenni ha salito le scale del Vaticano per affrontare simili incarichi?), lo scopo della mia visita. Risponde che è carità cristiana intervenire ogni qualvolta i sentimenti religiosi sono offesi.”
La visita di rav Prato in realtà non era stata la prima. Alla fine degli anni ’20 e nei primi anni ’30 il rabbino Alessandro Da Fano (rabbino capo di Milano dal 1892 al 1935) si recò in Vaticano diverse volte per incontrare papa Pio XI. Prima di essere nominato papa, Achille Ratti era stato prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano e rav Da Fano gli insegnava l’ebraico, come fece anche per gli allievi che Ratti via via gli avrebbe poi mandato. L’ebraico è ancora di casa in Vaticano. Anche noi siamo stati accolti da un simpatico e gentile sacerdote che ci si è rivolto con un sonoro Shalom e Ma Shelomkhà, e andando via ci ha detto, con ottima pronuncia, Lehitraot e Shabbat shalom.
(ringrazio Angelo Piattelli, neo-presidente della Hevrà degli ebrei italiani in Israele, cui vanno i nostri migliori auguri di chazaq we’ematz, per la documentazione)
Gianfranco Di Segni
(16 ottobre 2013)