Norma e negazione
Dunque, molto rumore per nulla? La vicenda dell’introduzione nel nostro ordinamento giuridico di una “legge per punire il negazionismo”, espressione in sé peraltro molto generica, dopo un fuoco di fiamma registrato nei giorni trascorsi sembra avere conosciuto, passata la piccola tempesta mediatica da poco vissuta, una piegatura all’ingiù. In altre parole, l’intreccio e la sovrapposizione di tempo tra la discussione in sede di commissione Giustizia del Senato del disegno di legge che avrebbe modificato l’articolo 414 del codice penale, la scadente gestione pubblica della vicenda legata alla tumulazione della salma di Erich Priebke (dove l’eco della sua morte si è tradotto in un ritorno di fiamma per i suoi apologeti) e il sofferto settantenario della razzia e della deportazione dell’ebraismo romano, hanno acceso ed alimentato i fuochi dell’attenzione sull’iter legislativo, aggiungendo un “di più” alle aspettative, da diverse parti espresse, di una sanzione giuridica nei confronti di un fenomeno diffuso e pervasivo. Su cosa sia il negazionismo non è il caso di tornarci se non per affermare un paio di aspetti che secondari non sono per nulla, anche e soprattutto per la discussione in corso. Il primo di essi è che il suo nocciolo duro, il fuoco della sua comunicazione, ruota contemporaneamente intorno ad un paradosso e a uno sviamento. Il paradosso è che gli “autori” negazionisti (che sono un piccolo numero rispetto ad una platea di fruitori assai più ampia) in realtà non negano l’esistenza di per sé di Auschwitz, se non nella sua storicità (la concretezza dello sterminio), per affermare, piuttosto, che esso esiste ma come menzogna. Auschwitz c’è, ma in quanto deliberata contraffazione della storia, una Disneyland dell’orrore per adulti, espressione emersa di un complotto che vorrebbe soggiogare le coscienze. L’ombra dell’ebraismo, all’interno di questa costruzione mentale (che di storico e storiografico ovviamente ha nulla, rinviando semmai ad una dimensione dove la mistificazione dei manipolatori si lega a credenze mitologiche e magiche sedimentate nel pubblico), non occorre neanche che sia evocata, manifestandosi come immediata conseguenza, secondo un’antica e tragica tradizione. Già si è detto che se non tutti gli antisemiti sono negazionisti è non meno vero che tutti i negazionisti sono (o diventano) antisemiti. A partire da questa premessa il negazionismo sposta da subito il centro della sua comunicazione sul piano della “libertà di ricerca e di espressione”. Posta in questi termini (fermo restando l’eccezione di un autore italiano, che costituisce soggetto a sé, la parte restante del network negazionista quasi sempre si disinteressa apertamente di qualsiasi riscontro) la retorica del “non potete negarci la libertà” diventa il perno su cui costruire consensi allargati, ben oltre la ristretta cerchia degli apologeti e degli esegeti a prescindere. Ed anche alleanze, che permettono al negazionismo antisemitico di rompere quello che altrimenti risulterebbe essere una sorta di autoassedio, rivolgendosi, oggi con una forza insperata rispetto al passato, anche a segmenti della società civile e a interlocutori intellettuali che, altrimenti, ne rimarrebbero estranei. Il caso proverbiale, negli Stati Uniti, è quello di Noam Chomsky, espressione radical dello schieramento di critici delle politiche dell’establishment, che a suo tempo aveva firmato «una petizione promossa da Mark Weber, altro militante del negazionismo, a favore della “libertà di parola e di espressione” di Faurisson. Le forti reazioni suscitate dalla presa di posizione di Chomsky lo inducono a precisare il perché della sua scelta, indirizzando allo stesso Thion [sostenitore di Faurisson] sette pagine dedicate a Some Elementary Comments on the Rights of Freedom of Expression, dalle quali trapela indirettamente un qualche imbarazzo. Con espressioni singolari dichiara di non volersi esprimere in merito al lavoro del saggista francese, del quale afferma di non conoscere più di tanto né di nutrire “precise idee” al riguardo. Ciò non gli impedisce di sostenere che: “notiamo innanzitutto che anche se Faurisson fosse per ipotesi un antisemita scatenato o un filonazista fanatico [ciò] non avrebbe nessuna conseguenza sulla difesa dei suoi diritti civili […]. Come ho detto, non conosco bene i suoi lavori. […] Per quel che posso giudicare, Faurisson è una specie di liberal relativamente apolitico”. La stessa sorpresa per avere visto pubblicato come prefazione al Mémoire di Faurisson il suo testo non stempera l’affermazione di principio. Pierre Vidal-Naquet replicherà duramente al linguista americano, accusandolo di un atteggiamento superficiale al limite della disonestà intellettuale». Mi sono autocitato, prendendo dal mio libro un passaggio, perché quella vicenda dice molto delle opportunità che la raffinata equivocità del dire negazionista offre a se stesso. In un’età populista come è quella che stiamo vivendo, soprattutto in Europa, la convinzione che il discorso storico sia solo ed unicamente parte di un ingranaggio di potere è molto diffusa. Gli intellettuali professionali (docenti, insegnanti, giornalisti, pubblicisti e altre figure ancora tra le quali, a volte, gli stessi magistrati) sono indicati come parte organica di quelle élite che, si dice, costituiscano il vero obiettivo da abbattere poiché causa delle diseguaglianze sempre più diffuse nel mondo occidentale. L’”incidente” in cui è incorso Piergiorgio Odifreddi, opinionista con un buon seguito di lettori e ascoltatori (e non a caso egli stesso parte del sistema di relazioni che afferma di volere contestare), ne è un altro significativo indice. Non di meno lo sono le testimonianze di sostegno al suo dire o a quello di Gianni Vattimo, quest’ultimo nelle sue recenti esternazioni contro Israele. Se non siamo in presenza di autori e intellettuali negazionisti tuttavia risulta persuasiva per il pubblico l’argomentazione da entrambi sottesa (o chiaramente esplicitata), ossia che il rimando alla Shoah sia una strumentalizzazione bella e buona della politica internazionale da parte israeliana. Che, sia ben chiaro, è discorso diverso dal legittimo ragionare sull’impatto culturale e politico della storia e, di conseguenza, del suo riflettersi e condizionare le scelte del presente. Così argomentando – per meglio dire: statuendo – aprono un varco al dispositivo negazionista, che interpreta tutta quella storia come una cortina fumogena menzognera, dietro la quale si nasconderebbero occulti burattinai, capaci preventivamente di inibire le critiche altrui per trarne così un persistente beneficio. La seconda questione rinvia quindi alle dimensioni e ai luoghi del negazionismo medesimo, che sono profondamente mutati, le une e gli altri, dalla fine degli anni Settanta in poi. Poiché se nel primo caso oggi la platea di potenziali fruitori delle declinazioni del negazionismo è assai più ampia, associandosi a volte all’antisionismo militante (che è discorso a sé, il quale, come tale, merita una sua specifica analisi, ma che sempre più spesso rivela la sua crescente intolleranza rispetto all’uso nel discorso pubblico della memoria della Shoah) e senz’altro al populismo culturale, nel secondo, se di luoghi si parla, è il Web a costituire il contenitore ideale, da qualsiasi punto di vista si voglia considerare la questione. Si tratta di una saldatura tra viralità delle comunicazioni (ovvero l’intensità e l’estensione della loro diffusione), accettabilità dell’inverosimiglianza (laddove tutte le opinioni avrebbero diritto di coesistere sullo stesso piano, quand’anche esse costituiscano una palese violazione dei codici di buon senso così come della tutela della dignità, in un concetto per l’appunto tutto populista di democrazia della parola) e, non di meno, “libertà di espressione” nell’età di Internet, dove tutti rivendicano non solo il diritto di potere dire quel che pensano apertamente, a volte sotto forma di insulto, ma l’obbligo, per parte altrui, di ascoltarne (e possibilmente plaudirne) la comunicazione. Il Web, in questi casi, si trasforma in una sorta di palcoscenico collettivo, dove ognuno mette in scena qualcosa di sé, della sua biografia, esigendo che gli interlocutori lo ascoltino e lo apprezzino. In questo quadro, estremamente problematico, perché articolato, sfaccettato e in continuo mutamento, affidare ai soli giudici la sanzione finale del negazionismo rischia di risultare ingenuo e, soprattutto, controproducente. La sua repressione, infatti, sfugge alle maglie di una semplice norma legale, richiedendo semmai la produzione di una giurisprudenza ben più ampia, dove l’aspetto sanzionatorio sia una parte, non però l’unica, di un impianto culturale di risposta alla violenza esercitata della cancellazione della storia. Alla non solo legittima ma necessaria ripugnanza per le sue numerose manifestazioni non si può quindi pensare di rispondere, oggi, con l’esclusiva leva di una legge penale, ovvero di impianto meramente repressivo. Poiché il rischio è l’eterogenesi dei fini. Il dispositivo sanzionatorio che in origine era previsto nella proposta di modifica dell’articolo del codice penale, peccava – nel tentativo, invero frettoloso, di dare una definizione accettabile del problema – di un buon grado di genericità, rimandando così in potenza ad una indistinta pluralità di crimini. Molti commentatori avevano messo in rilievo i numerosi rischi ai quali in tale modo ci si esponeva. Tra di essi, la concreta imperseguibilità delle numerose manifestazioni del delitto; la generalizzabilità della nozione di negazione, che i codici italiani, per quanto mi è dato sapere, devono ancora delineare, definire e introiettare nei suoi contenuti e anche nei suoi limiti (senza i primi ed i secondi si può stare certi che anche le politiche di Israele sarebbero state, prima o poi, accomunate a quelle naziste, e questo non solo nel giudizio corrente di certuni bensì in cause di tribunale); la palese mediatizzazione che da eventuali processi sarebbe derivata, laddove i negazionisti cercano esattamente ciò, ovvero un palcoscenico sul quale recitare il proprio “sacrificio” per la causa della “vera conoscenza”. (Quest’ultimo, detto tra parentesi, è una forma traslata, simbolica, del “martirio” dei vari kamikaze terroristici, di cui ne ricalca la potenza simbolica e gli effetti mediatici.) Le esperienze trascorse, purtroppo, testimoniano perlopiù di quest’ultimo risultato. Poiché in un processo ci sono sempre due livelli di giudizio: quello espresso dalla corte ma anche l’opinione di rimando, formulata dal pubblico. Ai negazionisti interessa soprattutto la seconda, sulla quale possono plausibilmente sperare di capitalizzare visibilità, consensi e un qualche seguito. Dopo di che rimane aperto il problema della perseguibilità del negazionismo. Che la battaglia sia eminentemente politica, come ha sottolineato Fiamma Nirenstein, è senz’altro sottoscrivibile. Non di meno, come tanti hanno affermato, il piano dello scontro (non di un confronto, che non si dà) è culturale. Ma sussiste la questione del pensare le forme giudiriche per affrontare un virus non nuovo e come tale capacissimo di adattarsi ad ambienti molto diversi. Soprattutto, oggi a suo agio. Se il voltare pagina implicherà l’abbandonare il lavoro in merito, allora sarà una sconfitta.
Claudio Vercelli
(27 ottobre 2013)