Kvutzot
Tra le molteplici componenti della mia identità (ebrea, torinese, piemontese, italiana, insegnante, pubblicista, iscritta alla Comunità di Torino, membro del Gruppo di Studi ebraici, frequentatrice del bet midrash delle donne, tifosa – poco interessata al calcio ma fedele – del Torino, amante dello sci, ecc.) posso proclamare orgogliosamente che sono una Mizra e un’Ein Dor. Cosa hanno a che fare con me questi due kibbutzim che non ho mai visto e che non so nemmeno esattamente in quale parte di Israele si trovino? Chi ha frequentato l’Hashomer Hatzair lo avrà già intuito: Mizra è il nome della mia kvutzà (gruppo di coetanei torinesi), Ein Dor è il nome del mio garin (gruppo di coetanei italiani, alcuni dei quali si sono trovati tra il 1985 e il 1986 a condividere per un po’ mesi alcune stanze nel kibbuz Sasa e molte esperienze in giro per Israele). Eccomi dunque domenica scorsa a lanciare il grido “Ein Dor” insieme a tutti gli altri nel grande mifkad che ha aperto la messibà milanese per il centenario. Ahi, ci sono cascata: quando si parla di Hashomer Hatzair si finisce per infarcire il discorso di termini ebraici, spesso per giunta usati in un senso particolare che non corrisponde al normale significato del termine. Messibà è la festa, su questo non ci sono grandi problemi di traduzione, ma come spiegare cos’è un mifkad? Che termine si potrebbe usare in italiano? Adunata? Per carità, fa venire in mente il fascismo. Appello? No, decisamente troppo scolastico. Meglio provare a raccontare il fascino di quella camminata nel bosco di notte all’inizio e alla fine di ogni campeggio fino a una radura segnata da un cerchio di fiammelle per terra dove tutti i gruppi gridano il proprio nome e si contano, si fa qualche discorso ufficiale poi si accendono scritte di fuoco e infine si cantano l’Hatikvà e l’Internazionale socialista. Tutto uguale domenica scorsa nella palestra della scuola ebraica di Milano (ad eccezione del fuoco, naturalmente), se non che i nomi gridati erano quelli di tutte le kvutzot o garinim della storia dell’Hashomer Hatzair in Italia, bambini e adulti, genitori e figli ciascuno con la propria kvutzà o garin. Abbiamo così scoperto che dopo di noi ci sono stati altri Ein Dor.
Si potrebbe discutere sulla rigida divisione in gruppi d’età, che ha il merito non lasciare solo nessuno ma corre il rischio di esasperare contrapposizioni e tensioni costringendo persone che non necessariamente sono amiche tra loro a fare tutto insieme e superare i problemi ad ogni costo (anche con sistemi un po’ radicali, per esempio costringere ciascun membro del gruppo a dire in faccia tutti gli altri cosa pensa di loro). In fondo, però, non ci scegliamo i parenti, i compagni di classe, i colleghi, e dunque l’Hashomer Hatzair, insegnando a tutti fin da piccoli ad andare d’accordo con i propri compagni di kvutzà, è un’utilissima scuola di vita. E a decenni di distanza non posso fare a meno di considerare i Mizra, anche se ci vediamo magari una volta all’anno, come gli amici veri, quelli che durano per sempre e su cui si sa di poter sempre contare. Certo, il movimento voleva dar vita a gruppi che si trasferissero in kibbutz, non creare gruppetti di amici che si trovano di tanto in tanto a Roma, Milano o Torino per un pranzo o una cena. Ma a volte i risultati che si conseguono involontariamente si rivelano i più importanti.
Anna Segre
(15 novembre 2013)