L’orizzonte incerto
Pur attendendo futuri riscontri elettorali, a partire dalla Francia, punto privilegiato di osservazione, è bene interrogarsi su quali siano le linee di distinzione tra le forze politiche, a partire dalla tradizionale divisione tra destra e sinistra, quest’ultima destinata a riconfigurarsi nei suoi contenuti in ragione soprattutto della perdurante crisi economica e dei mutamenti sociali e culturali di lungo periodo che stanno attraversando le nostre società. Che queste siano campo declinante di azione per i cosiddetti «moderati» è un dato che, in tutta probabilità, verificheremo sempre più spesso. Va da sé che molto dipenda da ciò che con tale parola fino ad oggi abbiamo inteso dire, così come molto dipenderà da quale sia l’idea di società che ognuno di noi coltiva, ma quel che è certo è che stiamo misurando lo sfaldamento progressivo di quel ceto medio che costituiva il nucleo, ossia l’interlocutore e il destinatario privilegiato, di una proposta politica identificabile, a vario titolo, con un mix di conservazione e innovazione ponderate: soprattutto conservazione degli equilibri e degli interessi diffusi e innovazione nel senso di prevedibile e calcolabile progressività nelle trasformazioni. Tutto questo è stato già in parte messo in discussione dai processi innescatisi negli ultimi venti e più anni. Siamo tuttavia ancora troppo legati ad una visione della società dove valgono ordinamenti e criteri fortemente connotati dal loro essere espressione degli Stati nazionali per riuscire a cogliere le nuove configurazioni di potere con cui, quanto meno i nostri figli e nipoti, dovranno fare senz’altro i conti. Rimane il fatto che il mutamento è un dato incontrovertibile, anche se esso sembra sempre meno aderire a quella idea di «sviluppo», come opportunità per molti, che pensavamo invece data e garantita una volta per sempre. Non di meno, e politicamente parlando è questo il passaggio più significativo, la crisi delle sovranità nazionali incide enormemente nella credibilità delle rispettive élite dirigenti. Nei riguardi delle quali una parte cospicua della popolazione nutre sempre meno fiducia. Anche da ciò, quindi, deriva la riconfigurazione del rapporto antagonistico tra destra e sinistra. L’elemento di caratterizzazione della seconda, l’egualitarismo, ha perso peso specifico un po’ ovunque. Di certo l’offensiva culturale neoliberale, avviatasi con gli anni Settanta, ne ha contribuito a segnarne il declino. Malgrado vi siano componenti significative delle nostre società che ancora si richiamano ad esso, soprattutto dinanzi al crescere dei differenziali di reddito e di opportunità, a tratti sempre meno colmabili, rimane il fatto che più spesso l’idea di libertà è stata identificata con la capacità di autoaffermazione individuale e non con la funzione redistributiva dello Stato. Non a caso, infatti, la destra, almeno nelle sue componenti più “governative”, in questi ultimi decenni ha fatto del motto «meno Stato, più mercato» una sorta di suggello identitario. Di contro allo stato-centrismo che storicamente l’aveva caratterizzata nel passato. A raccogliere questo totem caduto è invece la destra radicale, che si presenta, in tutte le sue numerose diramazioni, come il soggetto politico che ritiene imprescindibile una nuova valorizzazione della sfera pubblica in quanto strumento per la tutela e la protezione degli individui. In genere, questo tipo di richiesta si accompagna a formulazioni sulla necessità di adottare indirizzi politici di «preferenza nazionale», basati sull’appartenenza etnica. In altre parole: inclusione ma solo tra appartenenti, e originari, alla medesima terra. La linea di frattura tra le destre liberali e la seconda non potrebbe quindi essere più netta. Peraltro le destre europee antimercatiste, che si oppongono alle «derive della globalizzazione», tra le quali annoverano la finanziarizzazione dei mercati (ossia la trasformazione delle attività economiche in esercizi di speculazione monetaria e azionistica), le migrazioni (frequentemente lette non solo come un’oggettiva minaccia nei riguardi di equilibri nazionali consolidati bensì come il prodotto di consapevoli scelte politiche protese alla loro destabilizzazione), ciò che considerano una libertà di commercio che penalizza i prodotti locali (inseguendo vecchi e nuovi protezionismi), valorizzano molto la dimensione dello spazio, ovvero dei luoghi, che sono al centro delle perturbazioni ingenerate dai fenomeni di globalizzazione economica e culturale. Se la percezione del tempo si è contratta, nel senso che le quantità di informazioni e di comunicazioni che circolano nel pianeta sono enormemente aumentate e, non di meno, si è velocizzata la loro trasmissione, e se le opportunità per alcuni settori delle nostre società di potere accedere a risorse fino a non molto tempo fa irraggiungibili si sono, a loro volta, moltiplicate, per le parti restanti delle comunità nazionali gli effetti hanno assunto ben altro segno, assai meno esaltante e positivo. La destra populista, tale perché non si rivolge ad una specifica classe sociale, semmai facendo appello a ciò che chiama «popolo» o, più banalmente, «gente», gioca quindi le sue carte sulla rivalutazione e la difesa strenua delle comunità territoriali. Lo fa nel nome di una «identità», spesso artefatta, ma non per questo meno convincente per chi, sentendosi offeso dalle trasformazioni sempre più accelerate, temendo il declassamento e vivendo in una condizione di perenne tensione, cerca di trovare il bandolo della matassa della complicata situazione che va vivendo ovviando in qualche modo a quello che è altrimenti l’unico orizzonte gli sembra possibile, il senso dell’impotenza e della sconfitta. Il richiamo all’orgoglio nazionale, o ancora di più a quello di «terra» e di «comunità», si inscrive quindi dentro una strategia politica che si alimenta anche della critica persistente alle élite tradizionali (politiche, economiche, intellettuali), raffigurate come distanti e indifferenti rispetto ai destini delle società locali. Si tratterebbe della cosiddetta «casta», un termine che in Italia ha raccolto un’immeritata fortuna. Da questo punto di vista la spaccatura tra una destra tecnocratica, agevolmente inserita nei processi di globalizzazione, sostanzialmente avulsa dalle derive che gli spazi nazionali e i territori spesso vivono come contraccolpo alle trasformazioni socio-economiche e culturali, e una destra populista, che di questi ultimi, e di coloro che in essi vivono, si candida ad essere la rappresentante, non potrebbe essere più netta. Esistono quindi due destre, tra di loro spesso antagoniste. In questa dinamica, infine, il ruolo di ciò che chiamiamo sinistra rischia di essere marginale o comunque periferico. Senz’altro in via di ridefinizione, senza però che vi sia un chiaro orizzonte. Persa la rappresentanza del mondo del lavoro, oggi segmentato e atomizzato come mai lo è stato dall’inizio della seconda rivoluzione industriale, rinculata in una dimensione keynesiana (nel linguaggio della polemica politica si dice «statalista», intendendo con tale parola la priorità che viene assegnata al ruolo dello Stato nel regolare i processi sociali ed economici) nel momento in cui la dimensione del debito oramai condiziona ogni scelta pubblica, deprivata di una capacità di proposta che non sia a ricalco dei mutamenti, che non governa ma subisce, si presenta come un attore politico in forte sofferenza. Più in generale, la sua incapacità di dare una ragione alternativa (come anche delle speranze) ai numerosi squilibri che si accompagnano alle trasformazioni in atto, ne sta condizionando la credibilità e la forza di raccogliere consenso, obbligandola ad una rincorsa continua, su un terreno fatto di idee, parole d’ordine, significati ma anche timori e paure disegnato e riempito di contenuti da altri. Rimane il fatto che oltre certe soglie, peraltro non determinabili a priori, gli eccessi di diseguaglianza mettono a rischio la perduranza della coesione sociale, ossia dell’insieme dei legami che fanno sì che le reti sociali non si rompano completamente. Qualsiasi progetto o proposta politica che non si riduca al governo delle sole questioni dell’emergenza, destinate altrimenti a riprodursi all’infinito, dovrebbe ripartire quindi da questa consapevolezza. Dopo di che, il futuro è e rimane un interrogativo non da poco. Fatto, quest’ultimo, che va al di là delle linee di divisione ideologica, culturale e politica tradizionali.
Claudio Vercelli
(17 novembre 2013)