lotta…
La parola iniziale, che dà il nome alla Parashà, si presta a più di una traduzione. In base al contesto è evidente che essa significa “si stabilì”: “Ya‘aqòv si stabilì nella terra di residenza di suo padre, in terra di Kenà‘an”. Ma il commento di Rashì indica un’altra accezione del verbo: “Ya‘aqòv avrebbe voluto sedersene in tranquillità, ma gli saltò addosso la travagliata vicenda di Yosèf”. Per tutta la sua vita Ya‘aqòv aveva dovuto lottare contro le forze del male, contro gli emissari dello “yétzer ha-rà‘”, della tendenza al male, che gli si sono manifestati sotto varie forme: suo fratello, lo zio Lavàn, l’angelo … Ora, giunto alla vecchiaia, avrebbe voluto non dover più lottare, perché pensava, dopo che gli era stato cambiato il nome, dopo la morte della moglie prediletta e la drammatica vicenda della figlia, di avere definitivamente sconfitto lo “yétzer ha-rà‘”. Invece la decisione celeste era diversa: avrebbe ancora dovuto lottare. Per quale motivo? Anche se personalmente non ne avrebbe avuto bisogno, era necessario che lottasse contro il male: c’è in questa lotta eterna degli tzaddiqìm un beneficio per il mondo. Se lo tzaddìq lotta per se stesso, sta creandosi le forze che gli serviranno in seguito; o meglio, sta creando il suo ruolo di tzaddìq, che si esplica solo quando lotta per gli altri. È una costante della logica dell’ebraismo. Anche Giobbe diventa veramente giusto nel momento in cui la sua preghiera non è più solo per se stesso e per i suoi cari, ma anche per i suoi amici. Analogamente, Ya‘aqòv è completamente tzaddìq, è completamente Israel, quando la sua lotta non è più per sé: “Èlle toledòth Ya‘aqòv: Yosèf…”, “Queste sono le vicende di Ya‘aqòv: Yosèf”; la lotta di Giacobbe ha un senso e un’utilità se è rivolta al bene delle generazioni future. L’ebraismo è in una perenne lotta per la sopravvivenza; ma essa ha uno scopo quando essa è mirata non alla nostra tranquillità, bensì a quella delle generazioni future.
Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana
(21 novembre 2013)