I limiti del dialogo e una sinfonia stonata
L’Osservatore Romano del 15 novembre ha pubblicato un’intervista al rabbino David Rosen (“Perché non possiamo essere nemici”) nella quale tra l’altro appare questa domanda: “Alla fine di giugno Auschwitz ha ospitato una celebrazione in memoria delle vittime dell’Olocausto a cui hanno partecipato importanti rabbini, cardinali e vescovi e dove è stata eseguita una sinfonia sulla sofferenza. Anche lei era presente. Che cosa ha significato questo atto per gli ebrei?”.
Il rabbino Rosen risponde: “Concerti simili sono stati organizzati anche in altri luoghi, ma quello di Auschwitz è stato la testimonianza più potente dell’amore che c’è tra noi”.
Ritengo necessario spiegare di cosa si è trattato e per quali motivi mi trovo in dissenso con il rabbino Rosen e gli altri rabbini presenti. Il 23 giugno, nel piazzale antistante l’ingresso di Auschwitz-Birkenau, il Cammino Neocatecumenale ha organizzato la rappresentazione di una sinfonia corale con il titolo significativo “La sofferenza degli innocenti” composta da Kiko Arguello, leader del movimento. Erano presenti sei cardinali, numerosi vescovi ma anche circa 35 rabbini di varie denominazioni, con una discreta rappresentanza ortodossa. Secondo le parole dell’autore, in quest’opera “si presenta la Vergine Maria sotto la croce, contemplando il supplizio di suo figlio, sottomessa allo scandalo della sofferenza degli innocenti nella sua carne, nella carne del suo figlio: ‘Ahi che dolore’, canta una voce mentre una spada attraversa la sua anima. La sofferenza degli innocenti: uomini gettati per la strada…bambini abbandonati… quella donna … malata di Parkinson abbandonata dal marito… file di donne e bambini nudi che vanno verso le camere a gas”.
La Sinfonia è divisa in vari movimenti, con titoli molto indicativi della commistione di simboli e significati: “Getsemani, Lamento, Perdonali, Spada, Shemà Israel, Resurrexit”. In precedenza la Sinfonia era stata rappresentata in varie località, tra l’altro a New York e in Israele, sempre davanti a prelati, rabbini e vasto pubblico. Nella scelta delle porte di Auschwitz come sede di una nuova rappresentazione c’era l’intenzione dell’autore e leader di esprimere solidarietà al popolo ebraico vittima della Shoah, nel suo luogo più simbolico, e di sensibilizzare la Chiesa polacca su questo tema. La rappresentazione di Auschwitz e le altre che l’hanno preceduta, sono state accompagnate e seguite da commenti soddisfatti, talora commossi ed entusiastici di alcuni ebrei presenti. Il rabbino David Rosen ha detto: “Abbiamo sperimentato qualcosa di veramente magnifico… questo magnifico opus ha dimostrato una profonda risonanza con l’identità ebraica, con la sofferenza ebraica e con la speranza ebraica”. Qualcuno ha mandato un messaggio di saluto in cui si recita nella formula completa, con il nome divino, la benedizione “Shehecheyanu”, in cui si ringrazia il Signore di averci fatto arrivare a questo momento. Più cauto il commento del rabbino Naftali Brawer, che non ha mancato di segnalare con un certo imbarazzo le differenze di codici e sensibilità, ma ha scritto “sono stato capace di apprezzare, se non di afferrare interamente, ciò che questi Cattolici premurosi e pieni di compassione cercavano di comunicarmi nel loro linguaggio… Per un breve momento ho afferrato questo senso sfuggente di comunanza quando cattolici ed ebrei sono stati insieme dove un tempo c’erano le porte dell’inferno per ascoltare musica sublime che invocava solidarietà, compassione e anelito universale al cielo”.
Benchè invitato all’evento non ho voluto parteciparvi e desidero spiegare le ragioni delle mie perplessità e del mio dissenso. Quest’opera sinfonica, piena di compassione per le vittime innocenti, esprime in forma musicale alcuni temi fondamentali della fede cristiana; alla luce della passione, della sofferenza di Gesù e di sua madre, viene data un’interpretazione alle sofferenze del mondo.
E’ sempre in questa chiave di lettura che viene letta e interpretata la sofferenza della Shoah. Dice Kiko Arguello: “Alcuni dicono che dopo l’orrore di Auschwitz ormai non si può credere in Dio… No! Non è vero! Dio si è fatto uomo per caricarsi della sofferenza di tutti gli innocenti…. Questo è quello che ha fatto Gesù: Lui è l’innocente, completamente innocente, l’agnello portato al macello senza aprire bocca, lui si carica con il peccato di tutti”. Esprimere questi concetti in rapporto alla Shoah non è una novità per il cattolicesimo; già Giovanni Paolo II nella sua visita ad Auschwitz la definì “Golgota dei nostri tempi”, omologando Passione e Shoah. Ma nel caso della Sinfonia di Kiko, questa linea teologica cristiana si accentua per la speciale attenzione all’elemento ebraico che è particolarmente forte nel Cammino Neocatecumenale; nel panorama dei movimenti cattolici il Cammino si distingue proprio per l’amicizia nei confronti del popolo ebraico, la sottolineatura delle radici ebraiche del cristianesimo e l’utilizzo sistematico di elementi ebraici (cosa che lo espone alle critiche di chi nel mondo cristiano denuncia questa “ebraizzazione” del cattolicesimo). Come spiega il musicologo Ignacio Prats Arolas nel sito del Cammino, “la Sinfonia di Kiko Arguello è la prima in cui su un linguaggio musicale ispirato a elementi melodici, timbrici e, in alcuni punti, sintattici del mondo sonoro del giudaismo, si comunicano esplicitamente contenuti cristiani, ovvero la Passione e Resurrezione … in un contesto performativo paraliturgico nel quale si riuniscono ebrei e cristiani… sono proprio certe qualità musicali che hanno spinto la lettura di questa celebrazione in chiave di una ‘riconciliazione’”.
Sono proprio queste spiegazioni a motivare il mio personale dissenso, che sembrerebbe stonato davanti a una manifestazione così intensa di simpatia e condivisione; un dissenso che si basa su vari argomenti.
La Sinfonia esprime in forma musicale, e con particolare intensità emotiva, un’interpretazione teologica della Shoah. Prima di tutto è una interpretazione, lecita nel campo della fede e della libera ideazione, ma che va contro “il mistero” della Shoah, la sua esclusività, la sua sfida alla ragione, il rischio di dare a tutto questo un senso, soprattutto se di senso sacrificale si tratta; il contesto generale e la specifica collocazione dell’evento (all’ingresso di Auschwitz) dovrebbero imporre la massima cautela, se non il silenzio.
In secondo luogo è una spiegazione teologica basata sui principi della fede cristiana e come tale del tutto aliena, estranea e antitetica all’ebraismo: chi accetta questa interpretazione è già cristiano, fuori dall’ebraismo (e non un ebreo che corona il suo cammino…).
Sempre dal punto di vista teologico questa lettura nei confronti dell’ebraismo è per gli ebrei rischiosa, in quanto riduttiva e sostitutiva del ruolo indipendente dell’ebraismo e del suo autonomo percorso storico e di fede, con particolare riguardo alla sua storia di sofferenza millenaria. E infine, dal punto di vista storico e politico, questa rappresentazione è sfumatura e perdita dei confini, con la preferenza della teologia al tema morale della giustizia, l’elusione del tema della responsabilità, la mancata definizione dell’identità dei carnefici, e la cultura di odio che li aveva formati; evitando, sublimando e interpretando cristianamente si trasforma la Shoah in un evento cristiano. E’ questa una delle varie modalità in cui si esprime oggi il processo di cristianizzazione della Shoah. Per tutti questi motivi non riesco francamente a capire quei rabbini che hanno partecipato all’evento, incapaci di distinguere la dovuta gratitudine per la solidarietà espressa dalla lezione teologica e dalla celebrazione paraliturgica, inclusiva e sostitutiva. Non condivido l’opinione di chi ha provato nella Sinfonia “una profonda risonanza con l’identità ebraica, con la sofferenza ebraica e con la speranza ebraica”, quando l’identità ebraica è confusa con l’alterità totale, la sofferenza ebraica interpretata e condizionata da categorie inaccettabili per l’ebraismo e la speranza ebraica diventa speranza cristiana.
Immaginiamoci le moltitudini di dannati ebrei reclusi oltre i cancelli del piazzale del concerto, che cosa avrebbero pensato dei rabbini che oggi là davanti si sono commossi per la spada che trafigge la Vergine Maria per i peccati del suo popolo.
Questo evento rappresenta un caso molto emblematico delle difficoltà e dei limiti del dialogo ebraico cristiano, perché ha scoperto, mettendoli insieme, due punti estremamente sensibili: la Shoah e la storia della Passione. Il paradosso del legame speciale tra ebrei e cristiani è che il punto di collegamento, la figura ebraica di Gesù, è anche il punto di rottura.
La costruzione di una nuova fraternità, l’auspicabile comunanza tra ebrei e cristiani nell’orrore di fronte ai mali del mondo, e la ‘riconciliazione’ tra le due fedi devono passare per il rispetto delle differenze e non per l’accettazione del pensiero e della fede dell’altro, soprattutto quando vengono impiegati per interpretare le memorie più dolorose.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
(Pagine Ebraiche dicembre 2013)
(26 novembre 2013)