Periscopio – Allo stadio

lucreziVorrei commentare, oggi, una piccola notizia di costume, che ha ricevuto – giustamente – ben modesta eco nei canali d’informazione, e che, tra tante tragedie e cose rilevanti, appartiene senz’altro alla categoria delle effimere sciocchezzuole, destinate a essere immediatamente dimenticate. Una notiziola che a molti parrà del tutto insignificante, a qualcuno strapperà un sorriso, a qualcun altro potrà addirittura sembrare una cosa positiva, ma a me, invece, ha messo molta malinconia. Mi riferisco al triste spettacolo a cui si è assistito domenica scorsa, dove, in uno stadio italiano, alcune migliaia di bambini, di età compresa tra i sette e i quattordici anni, si sono esibiti in un grande tifo collettivo organizzato, esibendosi in cori di dileggio, perfettamente ritmati e organizzati, volti a insultare, tutti insieme, il portiere della squadra avversaria, raggiunto da poderose ondate di pesanti ingiurie personali, ogni volta che toccava palla.
Che tristezza. E’ questa l’Italia del domani, sono queste le giovani generazioni a cui affidiamo il nostro futuro, nella speranza che possano fare qualcosa di più e di meglio di quello che siamo riusciti a fare noi. Fin troppo facile dire che questi poveri fanciulli non fanno altro che seguire il nostro esempio. Cos’altro potrebbero fare, allevati in una civiltà nella quale il civile confronto è stato quasi completamente sostituito dall’insulto e dall’invettiva, dove non esistono più avversari, ma solo nemici, dove è diventato normale, quasi obbligatorio irridere e schernire gli antagonisti nelle loro presunte debolezze – l’età, i difetti fisici, la mancanza di potere -, dove il successo è diventato sinonimo di arroganza e superbia, e la parola ‘rispetto’ è completamente scomparsa dal vocabolario? Il linguaggio, si dirà, è cambiato, ciò che, agli orecchi di noi anziani, suona come una grave ingiuria, per i ragazzi – e i bambini – non è che un innocuo sberleffo, come un’ironica, quasi affettuosa pernacchia. Ma non è così. Questi bambini sono maleducati, plagiati e intruppati, ma non sono stupidi. Hanno imparato, dai grandi, quella che appare la cosa più semplice, più immediata e rudimentale da fare per dimostrare di esserci, di esistere, che è l’offesa, il colpo basso, la negazione dell’altro. Io non so chi tu sia, né mi importa, ma sono in grado di colpirti, di superare la tua guardia e fustigarti con il mio scherno, il mio sfregio, il mio disprezzo. E, se posso colpirti, vuol dire che sto sopra di te, che sono forte, potente, che esisto. E’ un meccanismo antico quanto l’uomo, anzi animalesco, non lo hanno certo inventato i piccoli “ultras”: lo vediamo nei cani, nei gatti, che ringhiano e cacciano gli artigli anche senza nessun motivo, solo per prendere le distanze, per affermare la loro presenza.
Ci illudevamo che qualche millennio di storia ci avesse fatto fare qualche piccolo passo in avanti, ma è bastato qualche anno di talk show televisivi, di politica circense e di comizi assatanati per farci precipitare indietro, allegramente risucchiati dalla civiltà delle caverne. Vivremo e moriremo, ebeti e felici, sputandoci addosso gli uni agli altri, sghignazzando davanti agli ospedali, agli ospizi e ai cimiteri, e prendendo a calci i vecchietti in carrozzella, in attesa che arrivi il nostro turno.

Francesco Lucrezi, storico

(4 dicembre 2013)