Ticketless – Séguita a dì Barucabbà
A 150 dalla morte del poeta, il Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli organizza in questi giorni a Roma, presso la Fondazione Besso, un convegno sulla “Bibbia del Belli”, per adoperare il titolo dell’antologia curata mirabilmente da Pietro Gibellini (Adelphi, 1974). Nella mia libreria questo volumetto trova posto, e non sfigura, accanto alla Bibbia di Sciaddàl o di Diodati. Andrò al convegno per ricordare che la ricezione del grande poeta si prolunga fino al più belliano dei personaggi di Primo Levi: Piero Sonnino (Cesare in “La tregua”). Il suo vero nome era Lello Perugia, ma il nome d’arte potrebbe essere Barucabbà, il comico-trasteverino che nel sonetto “Le scuse de Ghetto”, a proposito della morte di Gesù, seguita a ripetere (“séguita a dì”) la cosa più arguta che sia mai stata scritta contro l’accusa di deicidio: “Sùbbito che lui venne per morì/ quarchiduno l’aveva da ammazzà”.
Per più di un secolo Belli “ha seguitato a dire” cose importanti anche ai suoi lettori ebrei. Il grande buggeratore dei primi libri di Levi lo dimostra e pone allo studioso del rapporto ebraismo-letteratura una domanda finora rimasta senza risposta. Barucabbà aveva le carte in regola per diventare un Arlecchino o un Pulcinella ebreo, ma non ce l’ha fatta. Perché? Come mai non esiste una maschera ebraico-italiana? Esistono le macchiette caricaturali, i luoghi comuni s’incarnano soprattutto in figure femminili (l’orfana del ghetto!), ma non si materializzano in una maschera. Un problema serio, non può essere affrontato nella ventina di righe di un Ticketless. Riguarda i limiti di una cultura popolare che è stata molto feconda nei prestiti lessicali (Barucabbà-Benedictus qui venit) meno nel folklore. A Roma si è arrivati quasi a trovarla una maschera. La sua forza comica varca i secoli perché, come in ogni Bibbia, s’intreccia con la sofferenza umana.
Alberto Cavaglion
(4 dicembre 2013)