Qui Roma – Belli, e “l’abbreo” romano
“Er tempo, fijja, è ppeggio d’una lima. / Rosica sordo sordo e tt’assotijja, / che ggnissun giorno sei quella de prima”(La monizzione). Se è vero, come scrive il Belli, che il tempo consuma lentamente gli uomini, non si può dire lo stesso per le parole, almeno per quelle scritte. Ne è la dimostrazione lo stesso Giuseppe Gioacchino Belli, i cui versi non hanno subito l’erosione del tempo e ancora hanno molto da dire all’Italia di oggi. Lo dimostra il convegno sulla “Bibbia del Belli”, organizzato oggi dal Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli nelle suggestive sale della Fondazione Besso di Roma. Ad aprire l’evento, una sessione dedicata al rapporto tra il poeta cantore della romanità e la Fede, con l’intervento, tra gli altri, dello storico Alberto Cavaglion su “Risorgimento ed ebraismo. La cultura ebraica nell’Ottocento”, in cui è emersa la modernità letteraria del Belli nel rappresentare l’ebreo sotto diverse prospettive. Perché nei versi del poeta romano, nato nel 1791 e scomparso nel 1863, non c’è solo spazio alle figure fondate sugli storici pregiudizi che presentano gli ebrei sempre sotto lo stesso profilo. Belli guarda “all’abbreo” cercando di capirne le sue esigenze di vita, scavando nella realtà, come ha sottolineato nell’arco del suo intervento Cavaglion – a cui sono seguiti in mattinata quelli di Maria Luigia Sipione su Il Belli sacro in dialetto e in lingua, di
Pietro Gibellini, Belli “libertino”: nuove fonti e vecchie questioni e Giuseppe Croce sul ruolo dei preti nella poesia belliana” – che ha poi ricordato la “meravigliosa capacità del poeta di giocare con i punti di vista, dando vita a riflessioni sottili e colte come quella che coinvolge la diversa rappresentazione della paternità nell’ebraismo e nel cristianesimo”.
In Belli c’è più che una complessa descrizione dell’ebreo, che già lo distingue dai contemporanei (come Antonio Bresciani, gesuita autore de L’ebreo di Verona), c’è il racconto dell’ebreo romano: “nella visione comune, l’ebraismo italiano è visto come un monolite, una realtà omogenea – ha spiegato Cavaglion, esperto di Primo Levi – ma non è così. Per l’Ottocento dobbiamo parlare di diversi ed eterogenei ebraismi italiani e cittadini, in cui peraltro Roma fa storia a sé”. E nella letteratura, Belli aiuta a spiegarci questa singolarità che verrà poi ripresa anche da Primo Levi. “Il Cesare (che corrisponde nella vita reale a Lello Perugia) de La tregua è una figura belliana e richiama alla mente quel Baruccabà de Le scuse del ghetto”. A Baruccabbà, la rappresentazione dell’ebreo romano che nel suo essere una figura stereotipata potrebbe incarnare la maschera ebraica al pari del Gianduja o l’Arlecchino della cultura popolare italiana, Belli farà dire una frase dirompente per la sua efficacia quanto ironica di fronte alla millenaria accusa di matrice cristiana che puntava il dito contro gli ebrei, accusandoli di deicidio: “Sùbbito che lui venne per morì/ quarchiduno l’aveva da ammazzà”, scrive il poeta nel suo “Le scuse de Ghetto” in riferimento alla morte di Gesù. “Una frase lapidaria che smonta preliminarmente una delle motivazioni dietro cui si erano fatte e si faranno scudo le campagne antisemite”, ha sottolineato lo storico Cavaglion.
Daniel Reichel
(5 dicembre 2013)