In viaggio

Francesco Moisés BassanoQuando viaggio mi capita spesso di andare a ricercare nei luoghi che visito tracce di una scomparsa o attuale presenza ebraica. Chi non lo fa, del resto? Le ragioni possono essere innumerevoli da persona a persona, kasherut, semplice curiosità, memoria familiare e ancestrale, o in generale per sentirsi un po’ più a casa.
A riguardo, può essere interessante la lettura di un libro di Giulio Busi del 2003 “Lontano da Gerusalemme. Cronache ebraiche contemporanee”, ma c’è anche da dire che, come accade spesso nelle descrizioni e racconti di viaggio, niente è oggettivo. Le impressioni cambiano costantemente in base al soggetto e ai propri stati d’animo, e soprattutto in base al momento e alle sue modalità di visita. Senza trascurare poi, che quando si tratta di diaspora ebraica, non si può mai parlare di una certa stabilità, e tutto potrebbe mutare di anno in anno.
Per quanto concerne la mia seppur minima esperienza di “esplorazione” di luoghi ebraici, mi sono imbattuto in quartieri e vie di Marsiglia, di Londra, o di Gibilterra in cui si ha quasi la sensazione di trovarsi in Israele. In luoghi come Cordoba o Praga, in cui gli ebrei sono pochi o assenti, ma la presenza ebraica è stata ricostruita e rievocata per scopi turistici o folkloristici. In luoghi dove la comunità ebraica era numerosa e vivace, ma anche il suo patrimonio è andato perduto, come in Maghreb, dove le sinagoghe e la mellah sembrano continuare a permanere esclusivamente sulle mappe. Oppure in comunità recenti, dove magari gli ebrei erano spariti, ma negli ultimi anni sono riusciti a riformarsi e a ricreare un proprio tessuto, seppur ridotto rispetto al passato. E anche il caso di alcune città nordeuropee come Amsterdam o Berlino dove sovente un ipotetico nuovo quartiere ebraico si è spostato dal luogo dove aveva sede un ghetto, per situarsi più lontano in zone residenziali, se non proprio in periferia. Il vecchio quartiere è ancora visibile, ma ha perso ormai la sua funzione, se non per rivestire un significato mnemonico e museale.
Eppure, camminando per Jodenbreestraat o per Scheunenviertel, completamente ricostruite e modificate rispetto al loro aspetto originario, ma anche in altri esempi sopracitati, non sarà così difficile percepire o immaginare il luogo che era in passato, anche per chi realmente non può averne una conoscenza materiale.
Prevale, almeno personalmente, quella sensazione che si ha quando andiamo ad abitare in una casa già abitata precedentemente da altri inquilini sconosciuti (rispetto invece a una casa appena costruita), se ne avverte comunque il loro passaggio, il loro lascito, la loro “presenza nel tempo”. Il mondo è in fondo in continuo e rapido movimento, si ha la sicura convinzione come uomini moderni di aver cancellato, di aver lasciato alle spalle il nostro passato storico e geografico, quando invece questo rimane indelebile e a volte incombe nel nostro presente, e chissà, nel nostro domani. Così che non sarà difficile ritrovare i suoi luoghi scomparsi “città invisibili”, e quelli ebraici tra essi, dagli shtetlekh sepolti tra i campi di grano in Ucraina, alle sinagoghe distrutte, o trasformate e confuse con le altre abitazioni a Salonicco o in Nordafrica. Franz Kafka a proposito di questa immanenza dei luoghi avrebbe detto “La vecchia malsana città ebraica è dentro di noi molto più reale dell’igienica città nuova intorno a noi. Camminiamo sognando ad occhi aperti: noi stessi fantasma di tempi passati” e Leo Perutz gli fa eco scrivendo “Ho inseguito sempre il fantasma del ghetto praghese cercandolo dappertutto”. Forse in entrambi, Josefov è presente latentemente nelle loro opere, forse come dice il primo basta girare oggi per la nuova Praga.

Francesco Moises Bassano, studente

(6 dicembre 2013)