Nelson Mandela (1918-2013)

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“A nome dei cittadini di Israele ci uniamo al lutto delle nazioni del mondo e del popolo sudafricano, che ha perso un leader eccezionale. Nelson Mandela era un combattente per i diritti umani che ha lasciato un indelebile impronta nella lotta contro il razzismo e le discriminazioni”. Nelle parole del presidente di Israele Shimon Peres il ricordo di una delle figure simbolo del Novecento, Nelson Mandela o Madiba, scomparso ieri all’età di 95 anni. Grazie a lui il Sud Africa riuscì a sgretolare il muro dell’apartheid e in questo cammino verso l’uguaglianza, Mandela trovò al suo fianco diverse figure del mondo ebraico. “Ho trovato che gli ebrei sono di più ampie vedute rispetto alla maggior parte dei bianchi in merito alle questioni della razza e le sue politiche, probabilmente perché loro stessi sono stati storicamente vittime del pregiudizio”, scrisse il premio Nobel per la Pace nella sua celebre autobiografia Lungo cammino verso la libertà.
Nato nel 1918 nel villaggio di Mvezo, Nelson Rolihlahla Mandela iniziò ben presto a intraprendere il suo viaggio contro il razzismo e l’apartheid, prendendo la strada legale e dell’avvocatura. Come giovane avvocato fu attivo nel Congresso Nazionale Africano e propria nella sua formazione giuridica ebbe un ruolo centrale. Erano gli anni Quaranta, un momento storico in cui le opportunità per un uomo di colore di superare le barriere della discriminazione erano poche, rare le possibilità di affermarsi nelle professioni considerate elitarie. Mandela però trovò una porta aperta per svolgere il suo praticantato, per proseguire nel suo sogno: lo studio Witkin, Sidelsky e Eidelman, avvocati di origine ebraica che accolsero, in particolare Lazer Sidelsky, Mandela praticamente come un figlio. “Un uomo che mi insegnò a servire il mio paese”, scriverà Mandela nella sua dedica al vecchio capo Sidelsky. Un rapporto saldo tra i due, con Madiba a presenziare al bar mitzva del figlio di Sidelsky, Barry che in un’intervista rilasciata nel 1999 – data della storica visita di Mandela in Israele – racconterà, “quando ero un bambino, ho incontrato Mandela e mi lasciò un’impressione indelebile quando, il giorno delle suo nozze, la processione per il matrimonio passò davanti a casa nostra a Johannesburg come tributo e segno di rispetto nei confronti di mio padre”.
Ci saranno altre figure del mondo ebraico che avranno un ruolo centrale nella vita del premio Nobel per la Pace (1993), tra cui Arthur Goldreich e Benjamin Pogrund. Il primo aiutò a nascondersi Mandela e membri del Congresso nazionale africano nell’arco degli anni Sessanta. Goldereich combatterà nella futura Israele, prima della creazione dello Stati nel 1948, per poi tornare nel 1954 in Sud Africa per combattere l’apartheid. Proprio il suo coinvolgimento nello sfidare l’autorità per sconfiggere le discriminazioni lo porterà dietro le sbarre. Riuscirà a scappare per poi rifugiarsi in Israele. L’amico e compagno di tante battaglie Nelson sarà, come noto, rinchiuso nel 1964 nella prigione di Robben Island. E qui – da dove nel 1980 il futuro primo presidente nero del Sud Africa lancerà il suo appello “Unitevi! Mobilitatevi! Lottate! Tra l’incudine delle azioni di massa e il martello della lotta armata dobbiamo annientare l’apartheid” – il primo a visitarlo tra coloro che non appartenevano alla sua famiglia è Benjamin Pogrund, giornalista e attivista che fu tra i primi reporter a seguire le rivendicazioni sociali della popolazione di colore. “Io e Mandela ci incontravamo segretamente – racconta nel suo “Memorie ebraiche di Mandela” Pogrund – avevamo un sistema per inviarci messaggi per organizzare i nostri incontri. Guidavo di notte fino ad un angolo vicino casa di Nelson, lui saliva e poi ci mettevamo in una strada buia a parlare per organizzare le proteste”.
Invictus, l’invincibile, poesia di William Ernest Henley, corrisponde all’animo di Madiba. 27 anni di prigionia, recluso per sabotaggio, cospirazione e tradimento dello Stato, eppure capace di portare con una nazione al cambiamento, a sovvertire un sistema malato fondato sull’ineguaglianza. Non accetterà compromessi, rifiutando il lasciapassare dalla prigione in cambio di una rinuncia alla lotta politica e al suo credo. Rimarrà a Robben Island fino al 1990, quando l’11 febbraio, grazie alla pressione internazionale, fu liberato. Parlerà di perdono, Mandela, perché la rabbia e le ritorsioni non sono le fondamenta su cui creare una nazione. Nel maggio 1994 diventerà il primo presidente nero del paese, recandosi una settimana dopo la storica vittoria a visitare la sinagoga di Sea Point e partecipando allo shabbat della comunità ebraica locale.
In ambito internazionale fu una voce autorevole per la pace tra israeliani e palestinesi. Difese la legittimità di Israele, “Mandela fu scrupolosamente corretto con entrambe le parti, anche se la sua inclinazione propendeva molto di più verso i palestinesi”, afferma David Sacks, rappresentante della Comunità ebraica sudafricana e intervistato dal Jerusalem Post. “Fu un profondo sostenitore dell’indipendenza palestinese senza mai deviare dal suo punto di vista, per cui questa era possibile solo se tutte le parti avessero riconosciuto il diritto di Israele di esistere in confini sicuri”. Nei suo rapporti con Israele ci furono delle questioni controverse, in particolare per lo stretto legame tra l’Organizzazione di liberazione palestinese di Yasser Arafat e il Congresso nazionale africano.
Nel 1993 Mandela, anno della premiazione al Nobel, dirà “come movimento noi riconosciamo la legittimità del nazionalismo palestinese così come riconosciamo la legittimità del sionismo come nazionalismo ebraico”. Dall’altra parte affermò anche che “non necessariamente coloro che sono nemici degli ebrei sono miei nemici”.
In ogni caso il suo pensiero si riflette in una delle sue famosi frasi, ormai scolpite nella storia, essendone divenuto uno dei suoi più grandi protagonisti, “Nessuno è nato schiavo, né signore, né per vivere in miseria, ma tutti siamo nati per essere fratelli.”

Daniel Reichel twitter @dreichelmoked

(6 dicembre 2013)