Il rumore di sottofondo
C’è un non so che di minaccioso che circola nell’aria e non da poco tempo. Parrebbe però che ora alcuni nodi vengano al pettine. La minaccia del cosiddetto “movimento dei forconi”, che in questi giorni preannuncia sfracelli collettivi, con l’occupazione di piazze e di strade nelle città italiane, deve fare riflettere. Poiché, al di là dei concreti effetti che otterrà, contiene in sé qualcosa che rimanda al già visto e al già vissuto. Come sempre, tanto più in questo caso, occorre evitare il bislacco esercizio delle facili nonché immediate analogie storiche che, alla prova dei riscontri, dicono poco o nulla. Cautela e sangue freddo, quindi. Ma, non di meno, è corretto cercare di capire se una certa miscela di fattori sia destinata a produrre effetti che trovano nel passato addentellati e rinvii. Quel che è certo è che la crisi sociale ed economica, insieme alle sempre più evidenti difficoltà che la politica, nei paesi del Mediterraneo del nord ma anche nell’Unione europea intera, trova nel gestire gli effetti dei processi di globalizzazione, possono offrire sbocchi autoritari ai problemi del momento. Quanto meno in quelle società dove minori sono gli anticorpi e le capacità di difesa da tentazioni semplificatorie e, nella loro sostanza politica, antidemocratiche. Il montare della protesta, tanto più se giocata su temi e pulsioni populiste, in altri termini, potrebbe anche incontrarsi con un tale esito, quanto meno di prospettiva. I riferimenti al disagio collettivo, ancorché del tutto fondati, in sé – infatti – non comprovano nulla che non sia la volontà di utilizzarli per una manifestazione politica. Quale siano i contenuti di questa, dove vada a parare, quali possano essere i risultati per la collettività, sono invece un ben altro ordine di questioni. Se si va a vedere il programma politico contenuto nel manifesto dei fasci di combattimento del 1919, carta istitutiva di quel movimento fascista che di lì a pochi anni si sarebbe trasformato in feroce e intollerante regime, si trovano una serie di richieste che difficilmente potrebbero essere etichettate come espressione di una destra reazionaria (e per l’appunto “fascista”, per come noi l’intendiamo ora): introduzione del suffragio universale, abolizione del Senato di nomina regia, convocazione di un’Assemblea costituente per la redazione e l’approvazione di una carta costituzionale, l’introduzione del limite delle otto ore di lavoro per giornata, una non meglio precisata “partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria”, un’altra tanto generica quanto ambigua “espropriazione parziale di tutte le ricchezze” a beneficio della collettività e così via dicendo. Il fatto che Mussolini e i suoi uomini abbiano tradito aspettative così tanto sottoscrivibili e diffuse quanto eludibili nei fatti concreti, una volta al potere, non necessariamente indica della intenzionale malafede di questi quanto della capacità manipolatoria che i fascismi novecenteschi, nei loro vari assortimenti ideologici, hanno saputo esercitare su collettività spesso smarrite. Un politico che non si fece ingannare, Pietro Nenni, all’epoca ebbe a descrivere tale stato di cose con il termine “diciannovismo”, raccogliendo in tale espressione il senso dei fatti, ovvero delle violenze ma anche delle promesse e della capacità di mobilitazione, su cui il fascismo costruì la sua visibilità politica prima e le sue fortune poi. Intervenendo nel vivo del disagio sociale, giocando con abilità e spregiudicatezza le poche carte che aveva a disposizione, surclassando un liberalismo incapace di dare delle risposte positive a collettività in fermento, dopo anni di guerra dissanguante, e colpendo mortalmente sia il movimento socialista che quello cattolico, entrambi altrimenti in forte crescita. Dai suoi avversati il fascismo permutò una serie di parole d’ordine, legate al riconoscimento di alcuni diritti, a partire da quello al lavoro, che la collettività di allora avanzava come richiesta pressante. Del pari a oggi, peraltro, fermo restando che la Costituzione repubblicana lo recepisce integralmente, benché poi sia totalmente inapplicato. Anche in questo caso, il destino che tale rapina di intenzioni e richieste assegnò alle medesime (rimaste perlopiù lettera morta), è questione a sé rispetto al modo in cui i movimenti reazionari di massa riuscirono, per l’appunto, a dotarsi di un robusto seguito popolare. Perché un tale excursus storico? Forse siamo tornati indietro di quasi cento anni? Ne dubito o, per meglio dire, speriamo di poterne dubitare, e a ragione. Non di meno ci sono alcune premesse che sembrano ripetersi. A fronte del discredito in cui le classi dirigenti, non solo quelle politiche, si trovano, sospese come sono tra tecnocraticismi irraggiungibili e delegittimazioni totali, le società europee, e in particolare quella italiana – quest’ultima peraltro sempre più spesso sembra presentare inquietanti analogie con la Grecia -, avvertono, come una sorta di scossa perenne e di offesa permanente, il senso di un’incalzante espropriazione: di diritti, di risorse ma anche e soprattutto di tutele e di protezioni. In una sola espressione: il furto del futuro, della speranza, dell’orizzonte in divenire. Lo Stato moderno esiste anche e nella misura in cui sappia invece garantire questo insieme di funzioni che lo rendono, a tutti gli effetti, il titolare effettivo della tutela dei diritti. Che non sono ipotesi astratte ma opportunità concrete pena, altrimenti, la decadenza non solo dell’offerta pubblica ma, insieme a essa, di tutte le istituzioni comuni. E con queste della libertà, che non può darsi senza che agli individui sia garantita la dignità nell’esistenza quotidiana. Nei volantini che circolano intorno alla protesta di questi giorni si fa appello, senza per lo più firmarsi e nel nome di un’improbabile sintesi tra destra e sinistra, nonché di una apartiticità e di un’apoliticità che puzzano lontano un miglio di fittizio e di falso, alla lotta non solo contro la “casta” politica, da ribaltare eventualmente anche con il ricorso ad atti di forza, ma contro l’Unione europea e, più in generale, in opposizione secca a tutte le istituzioni che sarebbero causa di una generalizzata rovina del nostro Paese. L’enfasi retorica non è da sottovalutare poiché a creare adesione è spesso il tono esasperato. Non di meno, lo strumento che sempre più spesso viene utilizzato per fare circolare non solo determinate informazioni ma anche quei tanti risentimenti che sono divenuti moneta comune è il web, dove la viralità nella diffusione di certi slogan è la migliore garanzia della loro presa collettiva. Infatti, conta non solo ciò che si dice ma il modo in cui lo si fa e, soprattutto, il dove. Un inquietante riferimento, che si ripete pedissequamente nelle comunicazioni di questi spontanei “movimenti di salute pubblica”, che vaticinano rigenerazioni collettive affidate alla forza salvifica, ossia giacobina, del “popolo”, è quello alle trame dei poteri più o meno occulti, a partire dal quelli finanziari. La qual cosa, detto per inciso, è fatto ben diverso dal dire che gli squilibri tra finanziarizzazione nella composizione delle ricchezze e declino delle produzioni industriali e dei correlativi consumi costituisca un campo problematico su cui le economie europee, a partire da quella nostrana, debbono confortarsi al più presto. C’è già di che sentirsi fischiare le orecchie e avvertire puzza di bruciato. Tutto è destinato a ripetersi? Ancora una volta è bene dire di no. Evitiamo i mantra rassicuranti come però anche gli appelli contro il lupo, quando di questo si è visto solo qualche pelo. Ma ci si ricordi che il vizio costui non lo perde mai. E allora, nell’ottundimento collettivo, nello smarrimento dei molti, nell’affaticamento dei più, tutte situazioni concrete ma anche stati d’animo che possono tradursi a breve in esasperazione e poi rifiuto, è bene rammentare che se la storia non si ripete tuttavia offre degli spunti di inquietudine. Chissà perché viene allora in mente quanto Bertold Brecht scrisse a Walter Benjamin, quando quest’ultimo, in fuga per l’Europa, già si era suicidato per evitare la cattura da parte dei nazisti: “Stancare l’avversario, la tattica che ti piaceva. Quando sedevi al tavolo degli scacchi, all’ombra del pero. Il nemico che ti cacciava via dai tuoi libri non si lascia stancare da gente come noi”. Evitiamo i facili vittimismi ma evitiamo anche di tornare a essere vittime, quanto meno inconsapevoli e magari, anche un poco incoscienti.
Claudio Vercelli
(8 dicembre 2013)