Identità – La modernità persa di vista

libro traversoContinua a far discutere e suscitare dibattito l’ultimo libro di Enzo Traverso intitolato “La fine della modernità ebraica” (ed. Feltrinelli). Al centro delo studio il rapporto culturale, se non addirittura antropologico, tra quell’insieme di condizioni, storie, idee, nessi e significati che vengono definiti in senso lato “modernità” e la funzione storica svolta dall’ebraismo in Europa. Il secondo, per Traverso, diventa un prisma della prima, essendone parte integrante, tanto più nei complessi processi di emancipazione che accompagnano l’evoluzione delle società occidentali. Un libro che ha suscitato non poche polemiche e di cui il giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche ha parlato con il contributo di David Bidussa, Francesco Moises Bassano.

La storia e le variabili


Domenica 3 febbraio
, sul Domenicale del Sole 24 ore, Sergio Luzzatto ha anticipato il contenuto di un nuovo volume di Enzo Traverso in uscita in Francia dal titolo La fin de la modenité juive (la Découverte) e in Italia in uscita alla fine di questo anno per Feltrinelli. Non voglio intervenire sui contenuti di un libro che conosco, che ho avuto il piacere e l’onore di leggere in anteprima, per gentilezza e amicizia del suo autore. Non lo voglio fare perché credo che i libri per essere discussi da tutti, debbano esserci ed essere a portata di mano di chiunque. E credo, visto che mi sembra già essere in corso, una discussione che appunto avviene senza l’oggetto, che un diritto di parola lo abbia prima di me Enzo Traverso, che mi auguro questo mensile trovi il modo di intervistare e di ospitare. Le discussioni anche quelle appassionate si fanno infatti condividendo la conoscenza e, particolare non trascurabile, in presenza dell’oggetto. Ciò detto, tuttavia, anche così credo che valga la pena riflettere su un dato che sta prima di quel libro. Nel 1958 Lo storico Isaac Deutscher (1907-1967), tiene una conferenza al Congresso mondiale ebraico dal titolo L’ebreo non ebreo (è il testo che apre la raccolta di saggi proposta con lo stesso titolo nel 1968 dalla sua vedova, Tamar Deutscher tradotto in Italia da Mondadori nel 1969; il testo di quella conferenza nella traduzione italiana si trova alle pagine 37-53). Che cosa sostiene Deutscher in quell’occasione? In sintesi quanto segue (se faccio errori o forzo l’interpretazione chiunque può controllare ed eventualmente, e se desidera, correggermi). L’eretico ebreo che trascende l’ebraismo appartiene alla tradizione ebraica; figure di questo tipo sono presenti costantemente nella tradizione storica del mondo ebraico, ovvero nelle società ebraiche organizzate. Sostiene poi che questo processo inizia a entrare in crisi nel momento in cui si struttura uno Stato nazionale ebraico. Comunque, afferma Deutscher, la soluzione dello Stato nazionale ebraico, pur obbligata o in un qualche modo determinata necessariamente in seguito al crescente antisemitismo e dunque, fondata sull’idea di salvarsi dal pericolo dell’annientamento, non consente la salvezza. E conclude: “Perciò, la mia speranza, è che gli ebrei, e così le altre nazioni, si accorgano infine, o di nuovo, dell’inadeguatezza dello Stato nazionale, e ritrovino l’eredità politica e morale lasciata dal genio di quegli ebrei che andarono oltre l’ebraismo: il messaggio di un’emancipazione universale dell’uomo” (Isaac Deutscher,L’ebreo non ebreo, Mondadori, Milano 1969, p. 53). E’ un testo che forse può apparire datato, ma che non sarebbe fuori luogo ristampare e rileggere con calma, a più di mezzo secolo di distanza. Ma non è questo il punto. Il punto a me pare un altro. O almeno quest’altro mi sembra più essenziale e problematico del primo. Ed è questo. Forse oggi per molti sarebbe impensabile che in una sede ebraica non solo sia invitato un personaggio con la biografia di Isaac Deutscher, ma anche che gli sia consentita la parola e che quella parola sia rappresentata dall’argomentazione sostenuta in quel testo. Eppure è avvenuto. Non solo. E’ anche avvenuto che in forma e in contenuti non dissimili da ciò che Deutscher sostiene nel 1958, Deutscher torni a ripeterlo ancora una volta in una sede ebraica e di nuovo nel Congresso ebraico Mondiale, nel 1963 intorno alla questione “Chi è l’ebreo” (anche questo testo è compreso in quel volume; nell’edizione italiana si trova alle pagine 55- 73). Dunque dov’è la questione? La questione è sulla base di quale legittimità interviene Deuthscher su un tema che oggi sembra molto interno e soprattutto sulla base di quale competenza? Si potrebbe rispondere in due modi. Quella discussione interviene in un momento preciso della riflessione culturale di tutto il mondo ebraico, sia quello presente in Israele sia quello diasporico, ed è la questione sollevata da Ben Gurion intorno a chi sia l’ebreo. Questione che per Ben Gurion non ha valore accademico, ma ha valore giuridico e politico e che risponde al tema di definire il concetto di cittadinanza in un Paese che ha difficoltà a stabilire per legge chi sia il cittadino. E’ una discussione che coinvolge molti intellettuali e persone pubbliche in Israele e fuori di Israele tra il 1957 e il 1958 (una storia delle origini, dello svolgimento e del senso di questo confronto mondiale, perché tale è, è fornita da un libro dal titolo Qu’est ce qu’être juif? scritto da sociologo israeliano Eliezer Ben-Rafaël, edito dalle edizioni Balland di Parigi nel 2002, che propone anche una scelta di 50 opinioni scritte allora. Un testo che, sia detto di passata, non sarebbe male tradurre o almeno conoscere). Una discussione che coinvolge figure del rabbinato ortodosso, conservative e reformed, ma anche intellettuali laici (tra questi per esempio Isaiah Berlin). A quel titolo e dentro a quella discussione interviene Deutscher. E questo spiega anche perché la sua opinione non appaia priva di legittimità. Esattamente perché il mondo ebraico è disposto a interrogarsi – senza pregiudizi e soprattutto senza steccati ideologici – su una questione di fondamento. Quella discussione che non si chiude e non giunge a una conclusione ha anche un fondamento culturale proprio perché rimane aperta e perché consente di esprimere opinioni diverse. Ma sulla base di che cosa Deutscher può intervenire? Non tanto su quella della nascita, ma su quella della competenza. Ovvero a partire dal fatto che una formazione culturale gli consente di avere autorevolezza di intervento in capitolo. Altra questione è discutere se la sua opinione abbia un fondamento e se, per esempio, la discussione sulla forma Stato o sulla nazione rappresenti per davvero la sintesi di un percorso di esperienza storica degli ebrei che non sempre tiene contro di scenari diversi da quelli europei (un aspetto, su cui anche la riflessione di un altro grande storico del mondo ebraico, ossia Hayim Yosef Yerushalmi, a mio avviso presenta incertezze, per quanto anche la sua riflessione sia di grande spessore e sicuramente molto ricca e personalmente la condivida in gran parte). Il che ripropone il problema di partenza non già, a mio avviso, sulla fine della modernità ebraica, ma se e in che forma si possa riflettere su una storia degli ebrei per la quale occorre considerare non solo molte variabili, compresa la affermazione e la fine della modernità. In questa riflessione si deve infatti anche tenere nel conto parametri fondati su coppie concettuali che coesistono e spesso reciprocamente confliggono, che da sole non sono sufficienti a dare conto del complesso cacofonico rappresentato dalla copresenza di più forme sociali ed esperienze storiche nei diversi mondi ebraici in un tempo dato. Questa varietà non esclude poi che qualcuno eserciti l’egemonia, e dunque sia dominante, come, del resto, è proprio di tutti i gruppi umani. Ma questa è un’altra storia.

David Bidussa, storico sociale delle idee
Pagine Ebraiche, marzo 2013

Quella postmodernità ebraica che qualcuno non vuol vedere

Reca domande e suscita dubbi già dal suo titolo, il libro di Enzo Traverso “La fine della modernità ebraica” (ora in edizione italiana da Feltrinelli editore), che era stato frettolosamente preannunciato in primavera da un polemico intervento di Sergio Luzzatto. Si può parlare veramente di fine della modernità, e di un pensiero dominante riferito a essa, terminato? In fondo, la post-modernità è un post(umo) della modernità, che si riflette e si fonda su di essa. E soprattutto lasciando il dibattito sul concetto (già ripreso e discusso) di modernità ebraica, è possibile usare questo aggettivo per identificare una tendenza di un popolo o di una cultura già ontologicamente a volte difficile da identificare? Il mondo ebraico – come del resto il mondo arabo, musulmano o un indefinito Occidente – è sempre stato attraversato da ampie e profonde sfumature se non fratture, un universo estremamente eterogeneo e complesso (usando le stesse parole di Traverso, o riprendendo una dura critica al lavoro di Traverso da parte di Sergio Della Pergola, apparsa negli scorsi mesi su Pagine Ebraiche). Qui invece si tenta di ridurre il tutto in due tendenze che predominano, escludendosi a vicenda, in due rigide fasi stabilite artificiosamente. La prima (la modernità ebraica), che andrebbe dal 1750 al 1950, legata a un’emarginazione/esclusione della presenza ebraica che sarebbe poi emersa come intellighenzia avanguardista e critica (e sovente socialista). La seconda (che segnerebbe la fine di tale modernità), andrebbe dal 1950 ai giorni nostri, segnata dalla Shoah e dalla nascita di Israele e dunque dal riconoscimento dell’alterità ebraica, avrebbe visto emergere invece un’intellighenzia conservatrice e vicina alla sfere di potere, unita proprio dal collante Shoah/ Israele. Sarebbe stata, in parte, la stessa classe intellettuale che si sarebbe spostata (in special modo negli anni ‘70) dalla sinistra alla destra. Per convalidare la sua tesi Traverso prende in riferimento più piani e prospettive, specie sulle cause e sulle premesse che avrebbero contraddistinto tale classe intellettuale, florida e creativa, del primo periodo – mobilità, urbanità, testualità, extratestualità, concetti già ripresi dal teorico dell’identità etnica Yuri Slezkine nella definizione di uomini mercuriani. O il laicismo e distacco dalle proprie origini culturali e religiose come punto di partenza, e la successiva condizione di outsider prima e poi di apolidi dopo la prima guerra mondiale, cosmopolitismo che diviene a sua volta internazionalismo. Ma soprattutto fulcro di questa singolarità sarebbe stata “una postura autoriflessiva della cultura occidentale problematizzata dall’interno, da un gruppo di suoi esponenti respinti ed emarginati”. Ma da queste considerazioni degne di nota (seppur non così nuove) il discorso passa a un esercizio quasi forzato, quando Traverso tratta della svolta e delle motivazioni che avrebbero portato a questa supposta svolta nel 1950. Dall’avvincente percorso di Hannah Arendt, che conia la definizione di “ebraismo paria”, vengono affrontate considerazioni su antisemitismo e islamofobia, – il primo avrebbe subito una sorta di metamorfosi a favore del secondo adesso prevalente – per poi trattare della natura del Sionismo e della conseguente nascita di Israele, descritta sì come “contingenza storica”, ma anche come uno stato che avrebbe creato nuovi paria privi di diritti e riconoscimento politico (i palestinesi), che si sarebbe fondato sulla negazione della Diaspora (e quindi della modernità ebraica), per un ritorno diretto all’interrotta storia biblica (una missione teologica-politica secondo Carl Schmitt) come redenzione alle sofferenze che trovarono un culmine nella Shoah. Questa invece sarebbe, secondo Traverso, anche “religione civile” dell’Occidente stesso, sacralizzata con rituali e monumenti, ma anche banalizzata, svuotata di senso, e ridotta a pura retorica, compensativa di un passato disgiunto da un presente invece “segnato da centri di detenzione ed espulsioni di clandestini”, ignorando dunque un suo messaggio di prevenzione nel rischio del suo riemergere sotto altre forme. Traverso mette dunque la parola fine alla fase della modernità ebraica e al suo pensiero critico e anticonformista, ma di fatto per dimostrare le sue tesi continua a citare quasi esclusivamente intellettuali ebrei e israeliani post-1950 decisamente a sinistra e ipercritici come Eric Hazan, Peter Novick, Zeev Sternhell, Michel e Annette Wieviorka, Yitzhak Laor, David Biale, Esther Benbassa, Dan Diner… se non apertamente esibizionisti, come Ilan Pappé e Shlomo Sand (che si è spinto fino a negare l’esistenza stessa del popolo ebraico). Tralascia e trascura la matrice socialista di Israele dei primordi, demonizzando invece Israele unicamente come stato segregazionista e culturalmente indifferenziato, quando invece non si può negare che sia uno tra i paesi scientificamente e culturalmente all’avanguardia (si veda anche solo il prestigio che rivestono i suoi atenei) e questo grazie proprio a una società aperta e pluralista che non ha dimenticato il retaggio della modernità. Non affronta neppure la distruzione della chimera socialista in Russia dopo le persecuzioni staliniane… del resto la Russia e il bolscevismo non verranno quasi mai accennati, il tutto è incentrato prevalentemente sulla Francia e sulla Germania, su quegli ebrei tedeschi poi esuli in America. E anche l’America nell’ebraismo uniformato di Traverso sarà relegata al destino dell’Europa, vista come polveroso cimitero (emblematica l’immagine in copertina con il cimitero di Praga), abitato ormai da pochi ebrei che Traverso immagina succubi e uniti solo nel sostegno delle politiche israeliane. Quando invece l’ebraismo americano è sempre stato qualcosa di distinto e in parte scisso, sia dalla sua origine europea, che dalla sua controparte israeliana. Gli ebrei americani non hanno mai avuto bisogno di sposare acriticamente la causa sionista, proprio per la loro adesione e fiducia al Bill of Rights, ma al tempo stesso non sono mai stati esenti da un pensiero critico, progressista, e anticonformista (talvolta trasgressivo). Hanno subito più di altre minoranze il maccartismo, sono stati in prima fila nei movimenti di protesta, per il pacifismo, per il femminismo e per i diritti civili negli anni ‘60-’70, e tutt’oggi il 70-80 per cento di essi privilegia il Partito Democratico rispetto al Repubblicano, e a questo non hanno gravato i non sempre sereni rapporti della dirigenza Obama con la questione israelo-palestinese. Dunque non è azzardato sostenere che la modernità ebraica descritta da Traverso sia esclusivamente quella mitteleuropea. Egli stesso squalifica la situazione italiana o francese con i Juifs d’Etats, ciò non si è verificata in altri luoghi o epoche. Eppure queste realtà hanno prodotto egualmente, da parte degli ebrei, creatività intellettuale e avanguardie senza sempre però una decisa impostazione a sinistra, se non il contrario. Le due anime contrapposte, critica- rivoluzionaria e reazionariaconservatrice faranno in realtà sempre parte della cultura politica ebraica (se non di ogni cultura). La rigida contrapposizione voluta dall’autore non è solo inappropriata, ma anche sconfessata dalle sue stesse ricerche. I Disraeli sono stati contemporanei ai Marx, come i Kissinger ai Chomsky. Per non dimenticare il contemporaneo critico dei media Zygmunt Bauman. Del resto il neoconservatorismo è già una contraddizione in termini, se non una controtendenza in un mondo rivoluzionario (seppur criticabile spesso per il suo etnocentrismo o la sua islamofobia). La strenua difesa di Israele in mezzo a una comunità internazionale che la nega, non è certo conformismo o affiliazione al potere, ma un atto critico, se non rivoluzionario. E soprattutto bisognerebbe riflettere se siano gli ebrei che hanno perduto o tradito le idee progressiste e rivoluzionarie, o se piuttosto non sia anche la sinistra intera che ha dimenticato il lascito apportato dalla componente ebraica al fondamento delle proprie idee rivoluzionarie.

Francesco Moises Bassano, studente
Pagine Ebraiche, dicembre 2013

(9 dicembre 2013)