…Mortara
La straordinaria scoperta del quadro di Oppenheim che rappresenta la lacerante sottrazione del piccolo Mortara ai suoi genitori merita qualche riflessione. Prima di tutto sull’autore, un frutto maturo del lungo percorso di emancipazione degli ebrei europei, che sceglie la pittura come strumento pressoché inedito di rappresentazione e interpretazione della realtà, anche ebraica. Il bel libro di Elena Casotto, Pittori ebrei in Italia 1800-1938 (Verona 2008) ci aveva aperto gli occhi su una notevole schiera di pittori ebrei che nella nostra penisola andavano animando i circoli artistici e le accademie. Apprezzati dalla critica, si esercitavano però solo raramente nella rappresentazione della realtà ebraica, forse intendendo in tal modo dare concretezza a quel processo di integrazione che pretendeva l’affievolirsi delle identità culturali di gruppo. Il tedesco Moritz Daniel Oppenheim rappresenta in questo contesto un’esperienza anomala. C’è chi lo identifica come colui che ha dato forma visiva al movimento culturale della Wissenschaft des Judentums (Scienza del Giudaismo). Non so se ci si può spingere a tanto, ma di certo è stato colui che ha più di tutti voluto dedicarsi a rappresentare le diverse forme di ebraicità che egli andava incontrando nel suo Ottocento, usando il pennello subito prima che la fotografia potesse restituirci istantanee dell’ebraismo vissuto. Scene di matrimoni, di discussioni talmudiche, il famoso quadro che rappresenta Lessing e Mendelssohn a colloquio, il ritratto di Leopold Zunz. Praticamente tutto quel che riusciamo a rappresentarci in forma visiva dell’Ottocento ebraico tedesco è filtrato dallo sguardo di Oppenheim. Nel caso del rapimento del piccolo Mortara, tuttavia, a me pare che la pittura superi il valore estetico (che pure c’è, almeno per chi ama il realismo figurativo) e si spinga ad abbozzare una denuncia politica. Proviamo a leggerlo. Il centro della scena è occupato da due protagonisti indiscussi: il piccolo Mortara e la madre, dipinti con colori chiari ad attirare l’attenzione dell’osservatore. Edgardo è un angelo, sorridente e innocente, con un vestitino bianco su cui è poggiato delicatamente un tallèt katàn. Il fatto è di per sè improbabile, ma è un segno identitario che l’artista vuole fortemente affermare. Poco distante la madre è appena svenuta, espressione di dolore insopportabile di fronte a un’ingiustizia da cui non sa difendersi. Accanto il fratello più maturo di Edgardo, troppo piccolo per reagire veramente, ma sufficientemente orgoglioso per sollevare un pugno minaccioso, a difesa della madre. Il padre non sa bene che fare e si protende verso il figlio mentre un sacerdote con aria imperiosa, scuro nell’abito e in volto, rappresenta l’inappellabilità della decisione presa. Sulla sinistra, sullo stipite del portone, una mezuzà (messa sullo stipite sbagliato…) ci ricorda che siamo in casa Mortara, e che dei gendarmi accompagnano dei religiosi (un anziano frate e una giovane suora) mentre stanno violando uno spazio ebraico. Sulla destra, infine, una donna piangente, forse una governante, sfoga nel pianto l’impossibilità alla reazione. Nel 1862, anno della realizzazione del quadro, ci si poteva forse aspettare qualcosa di più che una “sacra” rappresentazione del fatto come veniva raccontato dalle cronache. Forse non potevano bastare il solo pugno sollevato di un ragazzino o il pianto di una madre per affermare un diritto e denunciarne una brutale violazione. Ma di certo questa è una delle rare volte in cui ci si imbatte nella rappresentazione di uno scontro fra elementi simbolici di una Chiesa intransigente e chiusa, a confronto di un mondo ebraico pacifico rappresentato dal dolore e dall’innocenza di un bambino e di una madre.
Gadi Luzzatto Voghera, storico
(13 dicembre 2013)