Ticketless – Per Elsa Pokorny
Nella scorsa estate, mentre infuriava il caso “Partigia”, mi ero ripromesso di salire ad Amay, a cercare la baita dove il 17 dicembre di settant’anni fa morì Elsa Pokorny, una anziana donna ebrea viennese. Con l’aiuto di un amico valdostano, venuto a prendermi alla stazione di Châtillon, non ho avuto difficoltà a ritrovare il luogo dove fu trovato il corpo senza vita di Elsa. Era sfuggita alla retata dell’11 dicembre 1943, che portò ad Auschwitz Primo Levi, Luciana Nissim e Wanda Maestro. Le vessazioni subite, la paura derivante dal fatto che aveva perso il contatto con le figlie, scese a Pallanza, la costrinsero a cedere e decise di togliersi la vita. Le sue ultime ore di vita sono comunque poco chiare. Era rimasta sola e se un curato di montagna non avesse annotato il nome sul suo diario, per altro in modo impreciso, nessuno si sarebbe accorto di lei. Il fantasma di Elsa riguarda solo marginalmente Primo Levi. La sua storia rientra in un più ampio fenomeno di rimozione, quando non di assassinio della memoria, che perdura da settant’anni.
Non una lapide menziona Elsa, non uno dei moltissimi libri sulla Resistenza in Valle la ricorda. L’autore di “Partigia” si è posto – giustamente – l’obiettivo di infrangere ogni tabù, ma s’è arrestato di fronte a quel tabù che rischiava di alterare la sua ricostruzione di comodo: Elsa subì vessazioni, forse, non solo per mano di tedeschi o repubblichini. Partigiani che vessano anziane donne ebree? Sopire, tacere. Benché l’autore ne conoscesse, nei minimi dettagli, la storia, la sua fine non è stata ritenuta degna nemmeno di un rigo. Davanti a quella baita ho posato martedì 17 dicembre il mio sassolino. L’anno prossimo mi piacerebbe ritornarci, ma non da solo.
Alberto Cavaglion
(18 dicembre 2013)