Il senso dell’angoscia
Va verso la sua conclusione un anno difficile mentre se ne approssima un altro che potrebbe rivelarsi ancora più problematico. Che l’Italia sia un paese in declino è oramai idea comune, ovvero percezione condivisa. Quanto e cosa ciò comporti, e quando questo declino possa arrestarsi, al di là delle dichiarazioni di rito delle autorità di turno, sono invece motivi di discussione. Sta di fatto che le famiglie italiane, chi più chi di meno, sono state colpite ripetutamente dai contraccolpi di una crisi economica le cui manifestazioni più virulente sono iniziate già nel 2007. Circa diciotto milioni di connazionali sono, a vario titolo, computati nell’ampia fascia del bisogno, da quello più radicale (la povertà assoluta) a quello potenziale. In realtà, la ristrutturazione dell’economia del nostro Paese aveva già manifestato segni problematici nei due decenni precedenti. Tuttavia, gli effetti più drastici, si sono rivelati, in tutta la loro possanza, prepotenza e inderogabilità, perlopiù in quest’ultimo quinquennio. L’Italia è un paese che si è consegnato, passo dopo passo, alla marginalità progressiva nella nuova articolazione del mercato internazionale. Sia sul versante della divisione mondiale del lavoro, dove scontiamo drastici ritardi, che si riflettono in immediato sulla crescente disoccupazione, così come sul tasso di precarizzazione sempre più accentuato, sia sul piano delle capacità competitive, dove non sono più le risorse di un tempo a fare la differenza. Da ciò, come anche da altro, l’affanno collettivo. Il vero dramma è che molti non ne vedono la fine, temendo per sé, per la sicurezza dei propri famigliari, nonché per il futuro dei propri figli come dei nipoti. Ad inquietare non è tanto (o solamente) quello che già si può avere perduto ma anche e soprattutto ciò che ci si potrebbe ancora lasciare alle proprie spalle. Aspetto, quest’ultimo, che non lascia dormire sonni tranquilli. Siamo entrati, a pieno titolo, in una lunga stagione di incertezze. Sappiamo cosa stiamo perdendo, o ciò che più non siamo, ma non ancora cosa potremmo divenire. Un aspetto, quest’ultimo, che coniugandosi alla deprivazione economica e al senso di perdita di status e ruolo sociale, dà vita ad una miscela esplosiva, che coinvolge molte persone. Le quali, si sentono accomunate da un senso di espropriazione e di impotenza. L’espropriazione di diritti che si credevano assodati e quindi garantiti una volta per sempre, e che invece si scopre quanto possano essere revocabili. L’impotenza, che deriva dal misurare come nessuna forma di protesta costituisca, da sé, la risorsa alla quale rifarsi per ottenere il legittimo riconoscimento delle lesioni che si stanno subendo. Il cosiddetto «movimento dei forconi», meglio definito e conosciuto come «movimento 9 novembre», che nelle ultime due settimane ha tenuto banco sulla scena pubblica, si inserisce a pieno titolo dentro queste dinamiche. Al di là dei giudizi di valore che ognuno di noi può formulare, partendo dal fatto che esso non è l’espressione di un’organizzazione durevole ma solo il coacervo di disagi sempre più diffusi. La sua apparente evanescenza indica quanto la sofferenza collettiva sia oggi segmentata e incapace di costituire massa critica, ovvero in grado di cambiare qualcosa della situazione che stiamo vivendo. Un movimento, non importa quanto pilotato e eterodiretto, che è una sorta di spiacevole punta di iceberg, laddove la sua sgradevolezza non sta solo nei modi e nelle forme con cui si è manifestato pubblicamente ma in ciò che contiene, un senso sempre più diffuso di panico sociale, al quale nessuno di noi, già preso dalle sue ansie, vorrebbe guardare in faccia. Segnatamente, non può sorprendere più di tanto che nel momento in cui un’intera società rincula, ossia fa passi indietro nella sua costituzione materiale, misurando l’esclusione come orizzonte possibile per una parte dei suoi membri, vi sia chi si assuma il ruolo di imprenditore politico del razzismo e, in immediato riflesso, dell’antisemitismo. Poiché i risentimenti sono purtroppo “merce politica” produttiva, come le altre crisi, quelle del secolo appena trascorso, ci hanno abbondantemente insegnato. Se oggi in Italia non misuriamo ancora un’emergenza assoluta del pregiudizio antiebraico è solo perché alcune paratie stagne hanno fino ad ora retto. Malgrado tutto, il lavoro svolto in questi ultimi due decenni per consolidare gli anticorpi non è stato inutile. Ma la mancanza di risposte alle domande sociali più urgenti, la percezioni di una latitanza delle élite (e non solo di quelle politiche), il senso di solitudine di chi si trova in difficoltà potrebbero, qualora si dessero determinate, sfavorevoli condizioni, tradursi in un nuovo rischio. Nel malaugurato caso, la risposta culturale, lo sforzo di pedagogia collettiva, l’investimento sulla ragionevolezza non basterebbero a frenare le tentazioni deliranti di chi, non trovando riscontri confortanti nella sua quotidianità, si affida, ad una razionalità paranoica, che spiega l’altrimenti incomprensibile con il ricorso alla falsa (e indiscutibile) linearità del pregiudizio. C’è allora un pericolo concreto, alle nostre porte? Non ancora. Ma, come il passato ci insegna, se un movimento politico non effimero avesse la forza di dare fiato a queste trombe, si potrebbero aprire scenari molto problematici.
Claudio Vercelli
(22 dicembre)