Ricordare il “secolo totale”
Prosegue con l’anno entrante un periodo di ricorrenze, in parte già inaugurato con il settantesimo dell’inizio della lotta di Liberazione. Il 2014 rinvia infatti al centenario delle Grande guerra che, tra il 1914 e il 1918, coinvolse l’intera Europa e non solo essa. Dei suoi effetti di lungo periodo, del suo costituire una cesura periodizzante, ossia un complesso di eventi che stabiliscono una rottura tra il prima e il poi, molti hanno già detto ed altri ancora avranno modo di dire. Anche su queste pagine, ci viene da pensare e sperare. Ritornare a quel conflitto implica infatti il ragionare su cosa sia una guerra contemporanea, dai caratteri mondiali, letteralmente «totali». Una totalità che deriva soprattutto dal fatto che le linee di divisione tra civili e militari furono allora varcate una volta per sempre. Non solo la pietà residua veniva a mancare. È piuttosto il quadro di riferimento, su un piano politico, che subì uno stravolgimento e una radicalizzazione senza precedenti. Poiché è senz’altro vero che gli scontri tra eserciti e milizie contrapposte coinvolgono, quanto meno nei loro effetti, le comunità che ne sono toccate direttamente. Da che mondo è mondo ciò è fatto tanto ovvio quanto risaputo. Eppure, la Prima guerra mondiale sancì un principio che diverrà poi prassi comune, portata a potenza ennesima dalle nazioni nazifasciste trent’anni dopo, ossia che per vincere un confronto armato non basta solo avere l’esercito più forte. Occorre semmai colpire l’anello debole dell’avversario, la popolazione, nella maniera più violenta possibile. La quale si trasformava, da soggetto passivo qual era stato inteso fino ad allora, nel vero obiettivo dell’azione militare. Non solo conquistare ed occupare, quindi, ma anche annientare e disintegrare: esseri umani, collettività, memorie e storie. Una guerra totale, quindi, perché di mobilitazione spasmodica e assoluta, dove ai milioni di combattenti al fronte si accompagnavano masse brulicanti di donne e uomini chiamati allo «sforzo bellico», in città prese continuamente di mira dai bombardamenti, laddove nessuno poteva sperare di sottrarsi ad un destino che non aveva contribuito a generare ma che ora lo chiamava inesorabilmente in causa. D’altro canto, con un esercizio di rimozione che agli europei era risultato agevole, le prove generali di questa prassi terribile erano già state fatte a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, durante la brutale spartizione coloniale, soprattutto per mano franco-britannica, dell’Africa. In quel caso, le violenze ripetute ed insensate contro le popolazioni civili locali, erano state il pane quotidiano dei conquistatori, «crociati del progresso» che nel nome dell’evoluzione civile e sociale distruggevano ciò che si parava dinanzi a loro. Fu in quel contesto che le moderne tecniche di annientamento di massa trovarono la loro prima applicazione durevole e, purtroppo, profittevole. Basti ricordare, di sfuggita, che l’istituzione dei campi di concentramento, ovvero di luoghi dove raccogliere la popolazione civile indifesa, lasciandola poi di fatto morire d’inedia e per sfruttamento, non è certo una prerogativa tedesca ma rinvia alla feroce guerra anglo-boera. Non di meno, l’introduzione della mitragliatrice, un’arma automatica capace di sparare colpi a ripetizione, risale al 1862, durante la non meno truce guerra di Secessione americana, e poi usata nelle campagne coloniali per abbattere gli avversari in grande numero ed agevolmente. Non di meno, il ricorso ai gas, che nella Prima guerra mondiali diverranno il terrore di molti combattenti, aveva già esordito in terra africana. La stessa nozione di conquista territoriale, in accordo con l’evoluzione tecnologica e un pensiero politico che faceva dell’omogeneizzazione degli spazi un obiettivo privilegiato, aveva assunto, ben antecedentemente al «Lebensraum» hitleriano, una fisionomia tanto sinistra quanto inconfondibile nella sua peculiarità. Essa, infatti, sempre meno si riduceva all’acquisizione coercitiva e violenta delle risorse materiali altrui e sempre più spesso si sposava con l’idea che il «suolo», conquistato militarmente, richiedesse di essere trasformato anche e soprattutto su un piano socio-demografico. Quanto meno in prospettiva, selezionando, coltivando e irrobustendo, quasi si trattasse di un esercizio botanico o etologico, quindi indifferente a qualsiasi valutazione di ordine etico, le «qualità migliori» della popolazione, a scapito di tutto il resto. Il razzismo biologico, e poi genetista, che giustificava la prevaricazione in base alla «natura umana», la quale avrebbe dovuto garantire il dominio dei forti intesi come i migliori, si ammantava di una concezione scientista che misurò ripetutamente, in quegli anni, le sue immediate ricadute nelle scelte politiche di molti governi. Non solo di quelli che si sarebbero caratterizzati per la loro natura dittatoriale e totalitaria. Da ultimo, va ricordato che nella Prima guerra mondiale si delinea come progetto geopolitico concretamente perseguibile quell’espansione ad Est che poi il nazionalsocialismo avrebbe fatto proprio con ben altri mezzi e con un’ideologia assai più tenace e insindacabile. Poiché se l’antisemitismo sterminazionista e rigenerativo (distruggere gli ebrei, la «razza parassitaria» per eccellenza) ha in origine, e mantiene nel suo sviluppo, un’autonomia di contenuto e di manifestazione, tuttavia esso si incontra ripetutamente, a volte intrecciandosi e saldandosi, con l’ossessione antislava, funzionale ai calcoli di espansione che la Germania andava facendo e che dopo la rivoluzione russa del 1917 assunse le vesti della lotta al «giudeobolscevismo». Ricordare (forse sarebbe meglio dire: comprendere e studiare) la Prima guerra mondiale, ancora una volta non si presenta quindi come adempimento ad un’istanza puramente – e stancamente – commemorativa ma richiama, nell’immediato, all’analisi del groviglio di motivazioni, di calcoli ma anche di atteggiamenti, pregiudizi e, in stretto riflesso, di condotte che avrebbero portato, passo dopo passo, dritti ai cancelli dei campi della morte. Non vi era uno sbocco obbligato in tal senso, non essendo stato scritto nulla a priori. E tuttavia questi ultimi non furono un frutto immondo, caduto casualmente nel grembo dell’umanità, bensì il prodotto del sommarsi di logiche disumanizzanti che trovavano l’Europa come centro propulsore. In un nesso inquietante e inestricabile di modernità e barbarie, quasi che l’una fosse divenuta complementare all’altra.
Claudio Vercelli
(29 dicembre 2013)