“Dialogo, qualcosa sta cambiando”
Le opinioni espresse da don Filippo Di Giacomo sul Venerdì di Repubblica del 27 dicembre sono assai discutibili. Poiché tuttavia non risulta che il giornalista sacerdote esprima posizioni ufficiali della Santa Sede e tanto meno il pensiero personale del papa, c’è da domandarsi che senso abbia chiederne il commento al rabbino capo di Roma e all’ambasciatore Minerbi, presentato come uno dei massimi esperti dei rapporti tra Israele e Santa Sede. Non si rischia in tal modo di conferire ufficialità a parole che non ce l’hanno, col risultato di rinfocolare polemiche su questioni complesse e delicate?
Don Di Giacomo ritiene che accusare le autorità politiche israeliane di “miopi visioni e calcoli meschini” nei confronti del Vaticano sia il modo migliore per preparare il pellegrinaggio di Papa Francesco in Israele? E pensa che attaccare “l’ebraismo italiano” per il suo giudizio su Pio XII contribuisca a creare un clima di fiducia e di dialogo tra ebrei e cristiani?
Ancora più grave, lo stesso giornale il 29 dicembre ha pubblicato un editoriale di Eugenio Scalfari nel quale, nei termini del più puro marcionismo, si contrappone il “Dio ebraico” al “Dio cristiano”, e nel quale si afferma inoltre che la legge mosaica non contempla né diritti né libertà, ma solo servitù.
Per quanto riguarda il riferimento dell’ambasciatore Minerbi all’Omelia pronunciata da papa Francesco il 27 aprile scorso, pubblicata nell’Osservatore Romano il 28, occorre innanzi tutto dire che questo papa tanto amato e stimato particolarmente dagli ebrei della sua nativa Argentina, autore insieme al rabbino Abraham Skorka di un dialogo diventato libro su questioni fondamentali del nostro tempo, non può certamente essere accusato di antisemitismo o antigiudaismo. Commentando il brano dagli Atti degli apostoli (13,44-52), il papa intendeva chiaramente riferirsi all’oggi e alle comunità chiuse e aperte nel cristianesimo. Però, purtroppo, ogni volta che si leggono brani che sottolineano il contrasto tra “i giudei” e i primi cristiani (che pure erano ebrei), si affaccia il pericolo di riproporre un’immagine negativa di tutto il popolo ebraico di ieri e di oggi.
Cinquant’anni fa, l’incontro tra Jules Isaac e Giovanni XXIII iniziò il lungo percorso che ha portato all’approvazione del documento conciliare “Nostra Aetate”. Quel documento e quelli che su questa tematica seguirono, forniscono una guida obbligatoria per il dialogo ebraico-cristiano: la lettura e l’interpretazione nel loro contesto storico dei Sacri Testi cristiani, proprio per evitare di riproporre gli stereotipi negativi che possono altrimenti così facilmente filtrare dal Nuovo Testamento.
La tesi sempre di nuovo espressa dall’ambasciatore Minerbi sembra essere questa: i cristiani sono stati, sono e in futuro saranno ostili agli ebrei e di conseguenza anche gli ebrei non possono che essere ostili ai cristiani. Ogni progresso del dialogo ebraico-cristiano è illusorio.
Sono ben consapevole che abbiamo alle spalle diciannove secoli di antigiudaismo cristiano e che pochi decenni di dialogo sono ben poca cosa al confronto. Tuttavia in questi ultimi decenni molte cose sono cambiate e altre ancora stanno cambiando.
Allorché riemergono elementi del passato e sorgono incomprensioni, questo non è un motivo per dichiarare inutile il dialogo: è anzi uno stimolo a lavorare ancora di più in intensità e in estensione per riparare i danni causati dalla teologia della sostituzione e dall’insegnamento del disprezzo.
Marco Cassuto Morselli, presidente dell’”Amicizia ebraico-cristiana” di Roma
(30 dicembre 2013)