Leningrado

salmonOrmai da giorni passeggio per una Pietroburgo di indescrivibile bellezza, sfavillante e rilucente, addobbata con gusto e senza badare a spese; vago tra i canali e le magiche strade del centro, piene di gente elegante, dall’aria decisamente europea. Non credo ai miei occhi: a distanza di pochi mesi dalla mia ultima visita, della vecchia e indimenticabile Leningrado non resta più neppure una traccia. Non ha alcun senso parlare di nostalgia, ma stringe un po’ il cuore ripensare all’immensa comunità ebraica leningradese ora più che dimezzata (assorbita dalle strade di Tel-Aviv, Boston, Sidney e Berlino). Gli ebrei, in epoca sovietica, erano ovunque: nei teatri e nelle università, negli ospedali e nelle redazioni dei giornali, gestivano negozi alimentari, gioiellerie e gallerie d’arte. Leningrado, almeno per me, era anche questo. Il ricordo di quelle migliaia di volti familiari sopravvive solo nella mente di chi ha vissuto qui nei decenni passati e nei libri dei non molti scrittori che li ricordano. Ripenso, ad esempio, all’incipit di un racconto di Michail Veller:

«Dopo il 1967 a Leningrado girava questa storiella: “Qual è la differenza tra il Canale di Suez e il Canale Griboedov a Leningrado? Il Canale di Suez gli ebrei lo guardano da un lato soltanto, il Canale Griboedov da tutti e due”» (Leggende del Nevskij Prospekt).

Laura Salmon, slavista

(3 gennaio 2014)