La ricerca dell’identità
Leggo con interesse e curiosità dell’attività della fondazione Shavei Israel, che ha come fine l’instaurazione di un nuovo legame tra ebrei perduti o “nascosti” con l’ebraismo, come nel caso dei Bene Anusim, offrendo a chi lo desideri la possibilità di un ritorno. Organizzazione che in Italia è coinvolta soprattutto nel recupero di un’eredità ebraica nel meridione che ha seguito lo stesso destino della penisola iberica in materia di legislazioni anti-ebraiche e successive espulsioni.
Pur senza andare troppo lontano nel tempo rispetto agli Anusim, la mia riflessione si sposta anche su tutte quelle generazioni che hanno perduto un contatto con l’ebraismo più recentemente, dagli innumerevoli figli o nipoti di matrimoni misti, a chi col tempo ha rotto volontariamente questo legame, per ragioni sociali, politiche o familiari, e naturalmente non l’ha poi trasmesso ai propri figli.
C’è qui dunque una differenza sostanziale tra coloro che hanno un’origine ebraica vicina o lontana e gli Anusim e i discendenti di essi, costretti intorno al XVI secolo ad abbandonare l’ebraismo, riuscendo talvolta a preservarlo di nascosto. Ma vagliando gli eventi e gli esiti che hanno contrassegnato la storia contemporanea nella diaspora, come le leggi razziste, l’ancora diffuso antisemitismo, la condizione di precarietà di numerose kehillot, o le divergenze che sporadicamente possono sorgere in esse, si potrebbe giungere alla conclusione che non c’è poi tra le due definizioni un divario così marcato, almeno nelle sue conseguenze sulla posterità.
In Italia e in tutta Europa, questi fattori hanno favorito più volte l’abbandono della comunità e la successiva completa assimilazione, protratta poi al giorno d’oggi, fino all’inconsapevolezza o anche al misconoscimento e al disinteresse, di molti individui del proprio retaggio ebraico familiare o ancestrale. Tenendo conto invece anche di chi, consapevole, ricerca un nuovo punto d’incontro, e non sempre riesce a trovare le modalità per ricrearlo.
Ciò nonostante, numerosi regimi nella storia hanno continuato a considerare ebreo anche chi non si definiva tale o chi secondo l’Halakhah effettivamente non lo era. Fenomeno che accade tutt’oggi in numerosi contesti.
Credo dunque, che una porta dovrebbe rimanere comunque aperta per chi voglia conoscere, o riavvicinarsi in qualche modo al mondo ebraico, anche solo per stringere una connessione culturale, e del resto, un’apertura e un dibattito sul tema non sembra sia mai mancato, e oggi riaffiora anche nella domanda sulle prospettive future dell’ebraismo ortodosso oltre Israele.
Infine, se in Occidente è possibile rintracciare attualmente un patrimonio e delle radici ebraiche, lo stesso non si può chiaramente dire di altre aree, a cominciare dal Medio Oriente o dal Nordafrica, dove vi erano regioni nell’Atlante o in Tripolitania con consistenti nuclei ebraici, in parte emigrati altrove e in parte scomparsi o assimilati. Forse si può contare sulla speranza che un giorno Shavei Israel riuscirà a giungere sull’altra sponda del Mediterraneo, per riportare alla luce qualche scintilla ebraica ancora accesa nel ricordo o nella segretezza di qualche gruppo o individuo.
A questo proposito serbo personalmente, secondo lezioni lévi-straussiane, la fiducia e l’auspicio che chi si riavvicinerà all’ebraismo (come a qualunque altra cultura), continui a custodire le proprie tradizioni locali e ancestrali, anche all’interno di un ebraismo “ufficiale” e universalmente riconosciuto. Laddove conservare una diversità, significa anche tenere viva la propria memoria, che è sempre una ricchezza in qualunque cultura e contesto, il quale inevitabilmente si arricchirà e completerà a sua volta.
Francesco Moises Bassano, studente
(10 gennaio 2014)