Gli ebrei immaginari e la rivoluzione

dellapergolaEnzo Traverso è un singolare esemplare di intellettuale errante. Ricercatore italiano all’estero, ha insegnato a lungo in Francia, ora lavora negli Stati Uniti, e si interessa, fra l’altro, di ebraismo contemporaneo. È un lettore attento e onnivoro, lucido e critico, molto concentrato sull’obiettivo della sua analisi e sull’aggressivo, quasi ossessivo programma narrativo che si è prescelto fra i molti possibili. C’era da aspettarsi che il suo libro, “La fin de la modernité juive”, ora tradotto in italiano per Feltrinelli, sarebbe stato accolto con parole di grande plauso, ma anche di dura critica. In parte perché è un libro ben scritto, ma soprattutto perché è di quei libri a intreccio e a tesi che, di questi tempi, un vasto pubblico aspetta come in agguato e poi legge avidamente perché conferma quello che già sapeva e che voleva risapere. Un altro libro in cui, al di là della plausibilità della prospettiva storica e contemporanea sul triangolo Europa-ebrei-modernità, si rimettono in discussione criticamente i fondamenti della diaspora ebraica e le radici culturali e morali, dunque la legittimità, dello Stato d’Israele. In un certo senso, un volume in contrappunto a quel caricaturale manifesto politico che è “L’invenzione del popolo ebraico” di Shlomo Sand. In questa sua analisi, Traverso analizza e confronta le posizioni di molti noti e influenti pensatori, accuratamente ma non imparzialmente selezionati, che hanno animato il dibattito culturale in Europa e nel mondo ben al di là dei limiti del perimetro ebraico. La tesi centrale del libro è che le mutazioni nel paradigma culturale, politico e al limite etico delle società europee sono potute avvenire grazie a un supposto ruolo di maieutica svolto dalla cultura ebraica minoritaria. Si ipotizza dunque una cangiante ma decisiva influenza di quest’ultima, piccola e particolare, sulle prime, grandi e dominanti. In questa ottica particolare l’Europa non può esistere senza ebrei, e la vera vocazione degli ebrei è quella di minoranza diasporica ed europea. L’intero studio si svolge senza citazioni di testi in lingua ebraica, come se gli ebrei non avessero mai avuto una loro propria forma di espressione linguistica, maturata nel corso di una lunga storia, dotata di contenuti semantici, simbolici ed estetici originali, e spesso intraducibili. Come se non esistesse perfino una stampa quotidiana in ebraico in cui la cultura e la politica si affrontano con toni e contenuti di alto profilo che spesso prefigurano quello che poi apparirà nelle opere di saggistica. Sarebbe come scrivere di letteratura francese senza sapere il francese. Se di francese si trattasse, il manoscritto non raggiungerebbe le soglie di una casa editrice, ma non così con l’ebraico. L’autore non cita testi in ebraico forse perché non li conosce abbastanza bene, o forse perché ciò pensa del pubblico dei suoi lettori. O forse perché ritiene veramente che il discorso sull’ebraismo si svolga e debba svolgersi solamente negli idiomi europei più frequentati. Ossia: il discorso sull’ebraismo e sugli ebrei è essenzialmente un derivativo di categorie di giudizio prevalentemente europee, è anzi un discorso fra europei. Se il discorso su ebrei e civiltà ebraica è subordinato alla matrice europea, anche agli ebrei si può concedere uno spazio, purché europeo. E tuttavia, paradossalmente, il ruolo degli ebrei è determinante dei destini intellettuali, culturali e alla fine politici, se non esistenziali, dell’Europa. Gli ebrei fungono da parametro o panacea di un certo tipo di civilizzazione europea, che evidentemente altrimenti non potrebbe esistere. Una simile ipotesi fa grossolana violenza alla sociologia e alla storia del collettivo ebraico. La civiltà ebraica, dalle origini, emerge da un contesto mediorientale, e sviluppa il suo fraseggio di forme e contenuti, ma anche di emozioni, di poesia e di speranze, pensando in un’antica lingua semitica, e magari più tardi nella sua variante yiddishista. Senza riconoscere e capire bene questi pregi (e limiti) mentali e semantici fondanti, ben poco si può capire dei contenuti essenziali e delle trasformazioni di una cultura, di una società, diciamo di una polis, autenticamente ebraica nel corso dei tempi lunghi e fino ai nostri giorni. Pretendere di ridurre la civiltà ebraica e i suoi portatori a sotto-categoria del modello europeo significa svilire, limitare e subordinare l’oggetto della propria analisi. È vero che la società europea è pregna di idee elaborate da individualità e a volte da reti sociali formate in prevalenza da ebrei. Ma da ebrei che hanno vissuto dentro l’ebraismo, oppure fuori e contro di esso? E data la loro precaria condizione di minoranza, la capacità di penetrazione e di sopravvivenza delle loro idee è stata determinata in misura decisiva dal potere di filtraggio della società di maggioranza che ha recepito determinati specifici stimoli, e solo quelli, a spese dalla ben più ampia possibile gamma di provenienza ebraica. La maggior parte di queste idee mai poté valicare i meccanismi di difesa, di omologazione e di ostilità eretti dalla società di maggioranza. La società europea ha esercitato uno spietato colonialismo culturale rispetto alla minoranza. È anche contro questa costrizione che si è mossa l’aspirazione di liberazione nazionale operata dal sionismo. Traverso lamenta l’evasione ebraica da questa prigione, vorrebbe riprendere il fuggitivo, e se non lo trova e non lo può possedere, lo vilipende. Un poderoso meccanismo di vilipendio è appunto la generalizzazione della collettività ebraica attraverso il concetto indeterminato di “l’ebreo” o “gli ebrei”. Si pretende così di individuare un’unica e compatta massa umana e sociale, dotata di ben precisi tratti caratteriali, che pensa e agisce all’unisono, che vive esperienze sincrone e reagisce come un sol uomo di fronte ai cangianti stimoli negativi o positivi provenienti dall’esterno. Questa incredibile distorsione dell’oggetto in causa rivela una colpevole assenza di intuizione sociologica quando è chiaro che la collettività ebraica, esaminata come comunità di persone ma anche come complesso di idee e di istituzioni, è empiricamente eterogenea, ed è anzi attraversata e agitata da feroci frazionamenti, conflitti, settarismi, censure, incompatibilità. Non può esservi seria e accettabile discussione di un’unità di analisi chiamata GLI ebrei, perché tale unità non esiste. Non esiste nella storia, non esiste nella modernità, e non esiste oggi. Hannah Arendt, nella sua grave confusione fra categorie filosofiche e normative, e realtà sociologiche e demografiche, aveva coniato la populista metafora degli ebrei come paria. Traverso rilancia il tema della responsabilità collettiva. Possono davvero “gli ebrei” costituire una vigile coscienza dell’Europa? Fermiamoci sull’orlo del burrone finché si tratta di domanda e non di affermazione. Non c’è da stupirsi, quindi, se il verdetto di Traverso, dopo la sua arbitraria individuazione del soggetto in causa, e la sua preconcetta e selettiva disamina di esso, sia di condanna senza attenuanti: dell’ebraismo coi suoi limiti peraltro non sufficientemente esplorati, degli ebrei europei che hanno smarrito la via, dello Stato d’Israele che sfugge al limitato copione assegnatogli. Se la tesi portante è che la civiltà ebraica abbia costituito il motore principale dello sviluppo della modernità delle società europee, attraverso quello che sembra un processo involutivo indotto dalla nuova condizione di sovranità statale, si sarebbe compiuta una trasformazione organica e antropologica nella natura della cultura e della comunità ebraica, e la modernità ebraica sarebbe morta. Che all’interno della diapora ebraica e dello Stato d’Israele esistano, invece, molte e profonde differenze sostanziali e sfumature di censo, di sensibilità, di affiliazione, di scelta, di comportamento, e soprattutto di politica, e che quindi sia ingiusto e sbagliato costruire una categoria indeterminata “gli ebrei” e un’immagine stereotipata di “Israele” lo dimostrano mille ricerche, qui ignorate, che rivelano stratificazioni socioeconomiche, orientamenti politici, credenze, speranze, programmi, timori e destini differenti. La generalizzazione alienante della categoria “gli ebrei” e di quello che Traverso ci vuol farci capire di aver capito di Israele è il preludio all’individuazione di un oggetto “altro” e nemico, indistinto e diverso, oscuro e minaccioso, ed è la premessa inevitabile alla sua esclusione e demonizzazione. In linguaggio giuridico, nelle obiezioni pre-processuali e poi nelle sentenze, è nota la trafila: il fatto costituisce reato ma sono scaduti i tempi della prescrizione, il fatto non costituisce reato, la persona non ha commesso il fatto, il fatto non sussiste. Nella fattispecie: l’oggetto della scrittura non è stato identificato, il caso è chiuso.

Sergio Della Pergola, Università ebraica di Gerusalemme

Pagine Ebraiche, gennaio 2014

(14 gennaio 2014)