“Giustizia, nel nome di Franca”

vera vigevani“Abbiamo grandi speranze, perché siamo quasi sicuri che qualcuno (dei figli dei desaparecidos) sia qui in Italia: c’è la possibilità che le persone che li avevano presi siano scappate e vi si siano stabilite con questi bambini. Pensate che il 40 per cento della popolazione argentina porta cognomi italiani, ha origini italiane. Un’altra possibilità è che quando negli anni ’90 c’è stata la crisi economica in Argentina molti siano venuti a cercare lavoro qua: questi ragazzi erano già grandi, quindi in qualche città, in qualche paesino ci deve essere qualcuno. Vogliamo fare in modo che a queste persone già adulte sorga qualche dubbio, e la maniera di far venire dei dubbi è lanciare una campagna di grande diffusione”. Vera Vigevani Jarach è impegnata nella Campagna per il diritto all’identità. È una gentile signora ultraottantenne, piena di energia, di dolcezza e di umanità. L’ho incontrata di recente a Roma, all’ambasciata argentina, per realizzare un’intervista per Sorgente di vita: ricordava perfettamente un nostro precedente incontro del 2005, per analoghi motivi. Nonostante abbia seri problemi di vista viene ogni anno in Italia: viaggia da sola, e in ogni città trova qualcuno ad aspettarla. E’ sempre attenta e disponibile e non si stanca mai di raccontare la storia della figlia Franca, vittima della dittatura civico–militare argentina instaurata dal generale Jorge Videla. Sua figlia Franca allora militava nel movimento studentesco della sinistra peronista e doveva iniziare l’Università. Cosa successe allora? Venne sequestrata, noi parliamo di sequestro, non di arresto, poco dopo il colpo di stato in Argentina, avvenuto il 24 marzo del 1976. Era metà giugno, fu presa vicino a un caffè, ma questo l’ho saputo solo molti anni dopo. Era una bravissima studentessa, era la portabandiera della scuola, il Colegio Nacional, uno dei migliori licei di Buenos Aires, dal quale scomparvero 108 studenti. Fin da quando aveva 13 anni era impegnata nella difesa dei diritti umani; faceva parte di quella gioventù che voleva un mondo migliore, uguali opportunità per tutti, giustizia sociale. Forse i militari videro in lei una potenziale leader. Era una gioventù militante che aveva un progetto ideale di cambiamenti sociali ed è stata la più colpita dalla dittatura civico-militare, fatta non solo di militari ma anche di poteri economici che non volevano il cambiamento. Molti di questi ragazzi, adolescenti, andarono via, in diversi paesi, in Italia, in Spagna. Anche Israele accolse molte persone, c’erano anche degli adulti, quasi tutti ebrei, ma alcuni non lo erano. Questi ragazzi sono cresciuti di colpo, hanno dovuto affrontare la realtà da soli, ma erano ancora dei fanciulli, avevano bisogno di protezione, di affetto, della famiglia, un po’ come noi ragazzi ebrei quando ci rifugiammo in Argentina a causa delle Leggi Razziste.

Per il regime sua figlia, come tanti suoi coetanei, rappresentava dunque un pericolo da eliminare. Quali notizie ebbe la sua famiglia dopo il sequestro?

Quindici giorni dopo la sua scomparsa abbiamo ricevuto una telefonata: ho ancora la registrazione, fatta con un aggeggio che si applicava al telefono, in cui si sente la voce di mia figlia e quella di mio marito. Si capisce che le fanno dire delle cose, inizia a parlare in italiano, poi passa allo spagnolo, e dice: “Sto bene, se fa freddo mi coprono, mi danno le medicine”. E il papà dice: “Ti vengo a prendere”, e lei risponde: “Ti avvertiranno”, e poi “Come sta la mamma?”. Sembrava una telefonata normale.

Ma questa telefonata non vi tranquillizzò, piuttosto vi fece precipitare in un’attesa piena di angoscia. Ha conservato la registrazione della telefonata per tanti anni: le è servita?

“E’ stato l’esame più difficile e più desiderato della mia vita: sono andata in tribunale a Buenos Aires per il maxi processo ai responsabili dell’ESMA, la Escuela de Mecanica de la Armada. Dissi quello che dovevo dire e portai questa prova, che è validissima. L’ho utilizzata qui in Italia e poi in Argentina. Per anni non siamo riusciti a sapere cosa era successo a mia figlia, per anni noi genitori, gli amici e tutti quelli che ci hanno aiutato, credevamo di poterla rintracciare e salvare, ma non ci siamo riusciti. Solo 20 anni dopo ho saputo, da una delle tre persone sopravvissute ai sequestri del ’76, quale è stato il suo destino: l’aveva vista, era stata con lei, le aveva parlato. Mi raccontò che era stata presa dalla Marina Militare e portata all’ESMA: era ancora ‘entera’, aveva mantenuto il suo carattere forte e deciso. Era rinchiusa insieme a un centinaio di persone nei sotterranei dell’ESMA: quando arrivavano altri prigionieri i militari, per ‘bisogno di spazio’, inventarono i voli della morte: questo è stato il destino di mia figlia. La prigionia durò meno di un mese.

L’ESMA era un centro di detenzione illegale, un luogo di prigionia e di tortura: vi passarono circa 5mila prigionieri, oppositori politici, operai, studenti, anche preti e suore. La terribile verità sulla fine dei prigionieri venne confessata per la prima volta nel 1995 da uno dei piloti di quei voli, Adolfo Scilingo, condannato per crimini contro l’umanità da un tribunale spagnolo. I prigionieri, la maggior parte giovani come Franca, venivano narcotizzati, denudati e gettati, ancora vivi, nell’oceano o nel Rio della Plata. Di tutto questo allora non si sapeva nulla: quali furono le vostre reazioni?

Ci rivolgemmo all’ambasciata italiana ma ci chiusero le porte, chiedemmo agli organi internazionali e ovviamente al governo argentino, alla dittatura stessa: in un ufficio mi dissero: “Sua figlia è una bella ragazza, sarà finita nella tratta delle bianche!” e in un altro: “Faccia finta che sua figlia è in vacanza”. Queste erano le risposte che ci davano. Noi abbiamo tentato tutte le vie possibili, ma attorno a noi ci fu un silenzio colpevole, a quell’epoca. Allora purtroppo quasi tutti i governi avevano rapporti e interessi con la dittatura civico-militare e si privilegiava questo aspetto: aiuti veri e propri non li abbiamo avuti, ci fu un silenzio tremendo, a livello internazionale.

Il silenzio nasceva dai buoni rapporti politici ed economici che tanti paesi, compresa l’Italia, avevano con l’Argentina dei militari. Gli orrori della dittatura rimasero fuori anche dai campionati di calcio del 1978, disputati in Argentina senza alcuna defezione, nonostante le proteste di molti. Tranne rare eccezioni, come quello dello stesso Videla, condannato nel 1985 a due ergastoli, in Argentina i militari hanno avuto, per decenni, l’impunità garantita dalle leggi chiamate ‘punto finale’ e ‘obbedienza dovuta’, votate nell’87 sotto la presidenza Alfonsin in nome della pacificazione nazionale. Questo silenzio è stato infranto anche grazie alle battaglie delle Madres de Plaza de Mayo, l’organizzazione in cui anche lei è impegnata, che ha continuato a lottare per la verità e per la giustizia. Cosa l’ha spinta in questa battaglia?

Io lo dico sempre, mia figlia ha avuto quel destino, e mio nonno che si chiamava Ettore Camerino, quando ci sono state le Leggi Razziste e noi siamo andati in Argentina, è voluto rimanere in Italia: diceva, qui non succede niente, e invece è finito ad Auschwitz, e non c’è tomba per lui. E così è per mia figlia, neanche per lei c’è una tomba. Nella mia vita, la vita di una persona, si ripete due volte la stessa storia.

Il 17 maggio scorso è morto il generale Jorge Rafael Videla. Cosa ha pensato quando ha appreso la notizia?

Quando l’ho saputo ho pensato che finalmente c’è stata giustizia, la giustizia l’ha mandato in carcere, è stato detenuto in una cella comune, dove è morto dopo molti anni, mentre scontava due ergastoli: è morto lì, dove doveva morire. In Argentina nessuno si è fatto giustizia per mano propria, ci sono stati molti passi per arrivare a questa giustizia, un processo che ha fatto maturare e ha dato coscienza a tutta la società. È necessaria la giustizia vera e propria e in Argentina ci siamo riusciti; è una vittoria morale, etica, che aiuta a conservare la memoria, e la storia.

Lei va spesso nelle scuole: cosa dice ai giovani, agli studenti?

Oggi la missione è cercare la verità e ottenere giustizia; in più parlo di memoria, perché la memoria è speranza, non è una garanzia assoluta ma rappresenta la speranza che non si ripetano questi fatti. Allora andare a parlare dappertutto, soprattutto ai giovani e far capire loro che in democrazia, come abbiamo da 30 anni in Argentina e come c’è qui in Italia, la partecipazione, possono far sì che quando ci sono delle avvisaglie, dei sintomi ci si muova in tempo secondo tutte le vie pacifiche. Questa è la nostra speranza”.

Piera Di Segni, Pagine Ebraiche gennaio 2014

(19 gennaio 2014)