Identità: Isahiah Berlin

Isaiah BerlinNel 1958 l’allora Primo ministro dello Stato di Israele, David Ben Gurion si è trovato a gestire il fatto che la nozione stessa di identità ebraica era diventata in Israele oggetto di una legislazione che avrebbe avuto implicazioni pratiche cruciali. A cinquanta “Saggi di Israele” Ben Gurion pose la domanda divenuta il titolo del lavoro del professor Eliezer Ben Rafael, che in un e-book intitolato “Cosa significa essere ebreo?” – scaricabile dai siti www.proedieditore.it e www.hansjonas.it – ha messo in luce per la prima volta in Italia quella discussione sistematica sull’identità ebraica. Ogni domenica, sul nostro notiziario quotidiano e sul portale www.moked.it, troverete le loro risposte.

Isahiah Berlin (1909-1997)
Filosofo e politologo, è nato a Riga, in Lettonia, all’epoca sotto il dominio russo. Da bambino emigra con la famiglia in Inghilterra. Studia a Oxford dove dal 1932 comincia a insegnare come lettore di filosofia al New College. È stato il primo ebreo a essere eletto Fellow all’All Souls College, nomina che mantenne fino al 1938. Durante la Seconda guerra mondiale lavora per i servizi di informazione britannici a New York e per le ambasciate britanniche a Washington e a Mosca. È nominato professore di Teoria sociale e politica a Oxford (all’All Souls College) nel 1957 e nel 1966 è il primo presidente del Wolfson College. Dal 1974 al 1978, Berlin è stato presidente della British Academy. Nel 1979 ha ricevuto il Jerusalem Prize. È stato membro del Board of Governors dell’Università ebraica di Gerusalemme. I suoi libri rivelano una ferma posizione liberale determinata sulle questioni sociali e politiche del giorno e, sul piano teorico, un’opposizione feroce al determinismo. Tra i suoi lavori segnaliamo: Four Essays on Liberty (trad. it. Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano 1989).

Oxford, 23 gennaio 1959

Caro Signor Primo ministro, Devo cominciare con il presentarle delle scuse. Innanzitutto per aver aspettato diverse settimane prima di rispondere alla domanda posta dalla Sua lettera (che ho ricevuto verso la fine dell’anno scorso, circa un mese dopo la sua data) in merito alla definizione degli ebrei in Israele con una particolare attenzione per il problema dei figli di un certo tipo di matrimoni misti. Devo poi scusarmi per non averle risposto in ebraico, lingua che amo molto più profondamente di quanto la conosca e può darsi che non abbia perfettamente capito il senso della Sua lettera, e anche per questo bisogna perdonarmi; e infine per le osservazioni che le farò. Naturalmente sono stato molto onorato dal fatto che mi ha abbia considerato degno di essere consultato su una questione di tale importanza; e non è soltanto per l’interesse intrinseco e per l’urgenza del problema, ma molto di più per il profondo rispetto (come Lei sa), e per l’ammirazione nei Suoi confronti e per i principi che rappresenta, che ho fatto del mio meglio per darle una risposta. Allo stesso tempo, non sarei del tutto sincero se non aggiungessi che la Sua lettera mi ha messo in una posizione un po’ imbarazzante, per non dire falsa, perché non credo che si possa ottenere nulla di buono consultando persone che non vivono in Israele su un tema che non solo a lungo termine ma, anche nell’immediato, è responsabilità amministrativa del governo israeliano e che può essere risolto soltanto dalla Knesset. Lei menziona, è vero, i legami che uniscono gli ebrei di Israele alla comunità ebraica nel resto del mondo; tuttavia, un esame minuzioso di questi legami pone inevitabilmente problemi su cui potrebbe esserci un profondo disaccordo, non solo tra Israele e la diaspora ma anche nello Stato di Israele e nella diaspora. Nella misura in cui Israele è uno Stato sovrano, creato per dare piena espressione politica e sociale alla nazione ebraica, esso deve (ed è proprio ciò che fa) ogni volta che si pongono problemi critici, agire autonomamente come stato sovrano, in nome di ciò che considera interesse della nazione di cui è espressione politica, senza avere la responsabilità di chiedere consiglio agli ebrei che vivono al di là delle sue frontiere, e senza essere obbligato a farlo. Esso non può (e non vorrebbe) evitare il giudizio dell’opinione pubblica tra gli ebrei del mondo più di quanto un governo britannico potrebbe sfuggire al giudizio di molti uomini di razza britannica (sic) in altre parti del mondo. Non può essere però direttamente guidato da tale opinione. Evidentemente, se pensiamo che gli ebrei siano principalmente un’entità religiosa – una specie di Chiesa – non ci sarebbe niente di più naturale che chiedere ai membri di tale Chiesa di esprimere il proprio parere prima che i suoi dirigenti prendano una decisione importante. Non posso tuttavia credere che Lei sia di questo avviso. Mi sembra, e sono sicuro che Lei è d’accordo con me, che lo statuto degli ebrei è unico e anomalo, composto da elementi nazionali, culturali e religiosi inestricabilmente intrecciati. Tentare di affermare che sono indissolubili o di separarli, porterebbe inevitabilmente a un disaccordo molto più profondo e più aspro. A meno che confrontare gli ebrei con un problema così cruciale non diventi imperativo – e fino a quando non lo diventerà, come potrebbe un giorno essere possibile – mi sembra che non ci si guadagni niente a farlo. Non mi sembra che il caso a proposito del quale ha formulato la Sua domanda sia cruciale fino a questo punto e, di conseguenza, non otterremo niente di buono e, forse, [provocheremo] danni se volessimo obbligare [tutti] ad allinearsi o, in altri termini, se domandassimo a diverse persone ebree di esprimere chiaramente la loro opinione su questo tema, a dichiararsi e a rivelare le proprie intenzioni. Beninteso, se Lei pensa che un Kulturkampf sia inevitabile e che lo statuto civile dello Stato di Israele deve essere nettamente e definitivamente separato dall’ebraismo in quanto religione riconosciuta (un punto di vista per il quale ho una qualche simpatia), e che sia giunto il momento di stabilire una volta per tutte il principio che uno Stato moderno liberale è, e deve essere, di carattere laico e che la religione dei suoi cittadini gli è indifferente, nella misura in cui è uno Stato e niente altro, allora può aver ragione di pubblicare un tale questionario. Io stesso ho degli scrupoli ad aggiungere anche solo la più piccola goccia in quello che ancora non è un oceano scatenato. Sono stato assai tentato di seguire l’esempio del mio illustre amico, il giudice Felix Frankfurter, e dal non dare una risposta categorica alla Sua lettera. Ma non sono soggetto come lui alla neutralità giudiziaria in materia politica; per questa ragione, allego [a questa lettera] una risposta (che non mi soddisfa ma è il meglio che potessi fare) perché la mia considerazione per Lei è più grande del desiderio di preservarmi da un errore rifiutando di impegnarmi in un ambito in cui i fattori hanno un equilibrio così precario e in cui (è risaputo) sono un ignorante, il risultato è del resto molto dubbio. È la sola ragione per la quale le invio una risposta. L’ho mostrata a Sir Leon Simon e posso constatare che condivido alcune sue opinioni ma non altre. Non sono né rabbino, né giurista, né specialista di storia ebraica o di sociologia: la mia opinione non ha grande valore, mi creda. Non posso però sopportare di essere presuntuoso al punto da rifiutare di fornirglieLa perché non è abbastanza seria o perché possa espormi a critiche, giustificate o meno.
Nutro la profonda speranza che non sarà necessario pubblicare i risultati di questa grande inchiesta – e che le risposte individuali saranno certamente considerate confidenziali e che, quando il governo infine agirà, lo farà senza tenere troppo in considerazione i suoi consiglieri all’estero e senza avviare un dibattito aperto con loro. Spero che Lei mi perdoni per aver preso l’iniziativa di darLe questo consiglio nella vostra situazione storica particolarmente difficile e di grande responsabilità. Non avevo l’intenzione di essere troppo zelante o immodesto.
Vorrei dire una volta di più quanto ho apprezzato il fatto che Lei mi abbia fatto l’onore di chiedermi la mia opinione.

Cordialmente,
Isaiah Berlin

Memoria per il Primo ministro di Israele

1. Suppongo che il problema fondamentale che si pone allo Stato di Israele sia quello di sapere quale posizione adottare nei confronti dei padri ebrei e delle madri non ebree, quando la madre non è stata convertita all’ebraismo ed entrambi i genitori desiderano che il figlio sia iscritto come ebreo in Israele. C’è anche il problema di sapere se le autorità religiose possono, o meno, considerare come ebree persone che, per ragioni personali, non aspirano ad appartenere ad alcuna denominazione religiosa né fare uso dei servizi offerti dalle istituzioni religiose. I due gruppi possono, beninteso, coincidere.

2. I figli di tali matrimoni misti possono essere considerati e registrati come ebrei in Israele? Persone che si dichiarano atee, o che appartengono a una religione altra dall’ebraismo, ma che rivendicano tuttavia la nazionalità ebraica, possono essere autorizzate a iscriversi (per esempio) come atee, o cristiane di religione ed ebree di nazionalità? Qual è il significato di quest’ultima categoria, e quali privilegi, e quali diritti, comporta o sopprime?

3. Nello stesso ordine di idee, mi sembra non essere un fatto puramente teorico che la maggior parte delle parole di uso comune siano suscettibili di avere almeno due definizioni: (a) l’una chiara e precisa, ma in qualche modo artificiale, resa necessaria da esigenze legali, scientifiche e teologiche; (b) l’altra più approssimativa che deriva dall’uso delle parole nel linguaggio quotidiano. Per quanto ne sappia, il termine ebreo ha questa definizione più ristretta stabilita dalla halakhah – cioè il figlio di una donna ebrea o convertito all’ebraismo; ma c’è anche una connotazione più ampia nel linguaggio comune. Si tratta di chiunque, senza tante riflessioni, può essere considerato ebreo da una persona normale che conosce l’uso abituale del termine (come una tavola, la maggior parte della gente è d’accordo nel chiamarla una tavola anche se, per esempio, per alcuni usi commerciali o legali, il significato della parola tavola potrebbe essere artificialmente ristretto). In questo senso normale, possiamo parlare di “ebrei atei” senza avvertire alcuna contraddizione perché possiamo definire un uomo ebreo se è, per molti aspetti, identificato con una comunità ebraica, nonostante sua madre possa essere una non ebrea non convertita e i rabbini rifiutino a buon diritto la sua rivendicazione di essere ebreo nel senso religioso – ristretto – del termine.

4. L’uso [che ne fa] lo Stato di Israele, nel senso che implica l’attribuzione agli ebrei di alcuni diritti e di alcuni doveri che non sono necessariamente il destino dei non ebrei, crea la necessità di una definizione legalmente precisa del termine ebreo. In che modo quest’ultimo deve essere definito?

5. Visto che lo Stato di Israele vuole essere (come penso lo sia [effettivamente] a ragione) uno Stato liberale e non una teocrazia, mi sembra evidente che non può definire lo statuto dei suoi cittadini o anche dei suoi residenti in termini puramente religiosi. Dal momento che Israele non è una teocrazia e non impone controlli religiosi dei diritti civili, non può rifiutare diritti come il matrimonio, il divorzio, la sepoltura eccetera a persone che si dichiarano atee o che non osservano una religione riconosciuta dallo Stato, per queste semplici ragioni. Se non deve esserci coercizione religiosa, come lo spiega bene la Sua lettera, deve essere possibile per ogni residente in Israele sposarsi e divorziare senza ricorrere a nessun tipo di cerimonia religiosa. Se, per il momento, la politica non permette di farlo, per la forza dell’opinione israeliana o ebraica che vi si oppone, ciò determina per alcuni una notevole discriminazione religiosa e il problema della garanzia delle libertà civili di tutta la popolazione di Israele, nel modo in cui la libertà civile è intesa oggi negli Stati moderni, mi sembra, per tutto il tempo in cui la questione si presenta, mi sembra, in linea di massima, insolubile. Dato l’esiguo numero delle persone interessate dall’assenza di istituzioni civili per il matrimonio, per il divorzio ecc., potrebbe darsi che il problema al momento non sia urgente. Questa situazione è tuttavia una carenza, e per quanto gravi siano i problemi morali e spirituali posti dalla sua soluzione, non ci si guadagna niente a negarne l’esistenza.

6. Se Israele deve essere uno Stato liberale moderno nel vero senso della parola, la questione dell’affiliazione religiosa non dovrebbe fare alcuna differenza per le sue leggi sulla nazionalità e per i diritti civili e politici di cui godono i suoi residenti. È inoltre evidente che non avrebbe potuto esserci uno Stato di Israele se l’ebraismo fosse stato semplicemente una religione e non, in qualche modo, anche una nazionalità. Almeno per ragioni di sicurezza, suppongo che potremo esigere dagli abitanti di Israele, forse per un certo periodo, di registrarsi come ebrei o non ebrei di diverse categorie. Persone conosciute (nella società in cui vivono, ebraica e no) come ebree, nel senso comune del termine ma che non sono riconosciute ebree dai rabbini che interpretano la halakhah nel modo tradizionalmente ammesso, saranno considerate ebree o no? Non può esserci una soluzione netta e definita a questo problema. Se eliminiamo la [possibilità di una] coercizione religiosa, anche la più lieve – sotto la pressione dell’uso e dell’opinione pubblica – in quanto incompatibile con il minimo di esigenze della libertà individuale (e non vedo come Israele possa moralmente evitare di farlo – non è la negazione delle libertà religiose che ha creato il sionismo?), deve allora esistere una categoria di persone che avranno il diritto di registrarsi come ebrei di nazionalità ma non di religione. Quale criterio utilizzare per determinare chi sono queste persone? Devo riconoscere che quello del buon senso, secondo il quale è ebrea qualsiasi persona considerata come tale, soprattutto dai suoi vicini non ebrei nei paesi della diaspora sembra abbastanza appropriata, ma è un po’ fluida e vaga. Possiamo inventarne uno, per esempio il criterio già proposto da qualche persona in Israele e anche, credo, da Lei: la dichiarazione di una persona di non appartenere a nessun’altra religione e di desiderare, di conseguenza, di essere ebrea. Alcuni potrebbero argomentare che tale definizione è troppo ampia – essa rischierebbe di includere persone generalmente non considerate ebree da nessuno (come per esempio un pagano ex-nazista) e troppo stretta perché in linea di massima sarebbe possibile a un uomo essere nazionalmente ebreo ma cristiano, musulmano, o qualunque altra cosa, di religione, sebbene poche persone lo facciano in pratica, e sebbene ciò appaia anomalo). Dire che le categorie nazionali di ebreo, arabo, armeno, ecc., possono essere conservate ma che se un uomo è cristiano è ipso facto privato di alcuni diritti politici mi sembra, anche se politicamente inevitabile e richiesto dall’opinione pubblica ebraica, una forma di discriminazione religiosa. Lei può dire che tutto ciò è teorico perché, per il momento non è un tema veramente importante dato che il numero di eccentrici che desiderano vivere in Israele in quanto ebrei, praticando una religione non ebraica, non è oggi significativo. Tuttavia, il problema di principio esiste e potrebbe assumere un altro rilievo (se, per esempio, le missioni cristiane riuscissero a fare dei convertiti).

7. La migliore soluzione per questo problema, per tutto il tempo che la legge del Ritorno resterà in vigore, sarebbe forse determinare la nazionalità di questi strani casi limite (ed è soltanto per loro che si pone il problema) con un meccanismo ad hoc: formare una commissione, [che sia] parte di un ministero esistente oppure un’istituzione specifica composta da esperti qualificati il cui ruolo sarebbe determinare – nel caso di immigranti potenziali e di altri già residenti in Israele, bambini e adulti – chi ha e chi non ha i requisiti per registrarsi come (politicamente) ebreo. Direi che (a) qualcuno che è vissuto come ebreo fuori da Israele, come per esempio chiaramente identificato in una comunità ebraica, anche se la propria madre non è ebrea, sarebbe crudelmente punito se fosse escluso dalla nazionalità ebraica – e non solamente dalla comunità ebraica religiosa – per motivi religiosi. Tali persone dovrebbero naturalmente sceglie- re di sottoporsi ai riti di conversione formale (mi hanno detto, per esempio, che in Inghilterra, Lord Malchett lo ha fatto), ma anche se non lo fanno, escluderli dalla comunità ebraica (politica), se non si convertissero, mi sembra ingiustificato e grave; (b) allo stesso modo, i figli di matrimoni misti i cui padri ebrei vogliono che siano educati come ebrei, dovrebbero, a mio parere, essere autorizzati a registrasi come ebrei, nella speranza che il semplice fatto di ricevere la propria istruzione con altri ebrei in Israele agisca nel senso dell’assimilazione appropriata.

8. Dal momento che le autorità rabbiniche si trovano nell’impossibilità (a ragione) di considerare questo genere di persone come ebree, inevitabilmente sarà esercitata su di loro una certa pressione sociale, quali che siano i mezzi per evitare qualsiasi forma di coercizione, per saltare l’ultima barriera che li separa da un’appartenenza totale alla comunità ebraica ovunque, cioè accettare la vera conversione alla religione ebraica. Può darsi che molte di queste persone abbiano poche obiezioni per accettare e per praticare la religione ebraica, almeno il minimo richiesto dalla Halakhah. Alcuni potrebbero però scegliere di non farlo e, lasciando Israele, potrebbero trovarsi esclusi dalle comunità ebraiche della diaspora. È una conseguenza inevitabile della struttura di una religione organizzata che, a buon diritto, ha un minimo di esigenze nei confronti dei suoi membri e non può rinunciarvi per ragioni politiche, legali, morali o quant’altro. È tuttavia probabile che il numero di tali persone sia esiguo, e mi sembra anche che i legami che uniscono Israele e la dia- spora non saranno recisi e neanche tesi per l’esistenza di queste persone e del loro statuto necessariamente anomalo. Per ripetere quanto ho già detto, non vedo alcun mezzo per determinare lo statuto di queste persone, se non (con) l’aiuto di una commissione che esamini ogni caso particolare per decidere se queste riuniscono un numero sufficiente di condizioni chiaramente avvertite ma spesso indefinibili per essere (politicamente) membri della comunità ebraica in Israele.

9. Si percepisce che l’opinione pubblica in Israele non è ancora matura per una tale soluzione che potrebbe suscitare sdegno, cosa che comporterebbe il rischio di un Kulturkampf nel Paese, e provocare uno scisma tra Israele e le comunità ebraiche fuori dalle sue frontiere. Se vogliamo evitare una collisione frontale prematura con dolorose conseguenze, penso che per questi casi problematici potrebbe essere creato una specie di statuto provvisorio. I figli di madri non ebree non convertite, [e] le mogli non convertite di ebrei che vivono in Israele (che desiderano essere parte integrante della comunità ebraica) e persone simili potrebbero essere registrati non come politicamente “ebrei”, ma come “di origine ebraica: padre ebreo” o “moglie di ebreo” ; “nonno paterno e nonno materno ebrei”, per esempio, enunciando semplicemente i fatti. Dovrebbe allora essere creato uno statuto speciale per questo genere di casi in attesa che la questione si definisca e le persone che si trovano in questa no man’s land alla fine si assimilino del tutto alla comunità ebraica o se ne distacchino; o ancora, nel peggiore dei casi, che continuino indefinitamente a restare casi limite fino a quando una legislazione più liberale diventi politicamente fattibile e che possano allora integrarsi liberamente al mondo ebraico senza che si scatenino troppe proteste. Non è una soluzione soddisfacente ma, nelle circostanze prese qui in considerazione, è la meno dolorosa cui io possa pensare. Non si deve permettere in nessun caso che sia più che provvisoria; niente sarebbe più ingiusto del permettere che emerga una categoria permanente di cittadini dallo statuto inferiore, mezziebrei aventi diritti civili e politici incompleti; [ciò sarebbe] un’abominevole caricatura in negativo della persecuzione antisemita in altri pae- si. Se la resistenza religiosa alla libera integrazione di queste persone si protrasse troppo a lungo perché l’attuale autorità dello Stato ne possa venire a capo, sarebbe meglio permettere a tali persone di immigrare piuttosto che esporle agli orrori di uno statuto minoritario.

10. Devo riconoscere che mi è difficile credere che l’accoglienza nella comunità ebraica di persone che sarebbero normalmente considerate ebree (almeno da quelle che, per qualsiasi ragione, sono interessate dalla questione – persone consapevoli di ciò in cui consiste il fatto di essere ebreo), anche se non sono pienamente qualificate secondo le regole rigorosamente applicate della Halakhah, provocherebbe una profonda frattura all’interno di Israele o tra Israele e gli ebrei nel mondo. Ma molto probabilmente potrei sbagliarmi, non vorrei esprimere il mio parere in me- rito. Storicamente, la religione ebraica, la razza ebraica e tutti i fattori che insieme formano la cultura ebraica, si sono uniti per costituire un’entità unica duratura, incapace di adattarsi in modo netto al modello politico di uno Stato moderno di tipo occidentale. La nascita dello Stato di Israele può “normalizzare” la popolazione ebraica solo permettendo – non necessariamente incoraggiando – a ciascuno di questi fattori di seguire un percorso distinto. Sembra che non lo si possa evitare ma non è necessariamente indesiderabile: si deve sperare che darà fastidio a meno convinzioni e sensibilità ebraiche possibili; ma mi domando se è realistico auspicare che non ferirà nessuno. Lo sento fortemente, tanto più che io stesso non sono soddisfatto di questa “soluzione”.