Le parole storpiate
C’è chi fiuta l’aria, osserva in quale direzione vada il vento e poi si comporta di conseguenza. Mentre ci si interroga dolorosamente sul peso della memoria, sulla funzionalità, o meno, dei giorni dedicati, soprattutto per i non ebrei, ai temi della deportazione e dello sterminio, c’è chi ha un orizzonte diverso, pensando che le elezioni a venire meritino ben più di una qualche affermazione politica di circostanza. Così per quell’europarlamentare uscente che, pur dichiarandosi annoiato di quanto è andato facendo (o non facendo?) nell’augusta assemblea comunitaria durante la legislatura in via di conclusione, ma confidando ora in una sua rielezione in un’altra lista (che nel mentre ha provveduto a rigettare l’autocandidatura), ritorna su antichi temi, ossessivamente riproposti. Protocolli dei savi anziani di Sion, ebrei, «sionismo» e parole, che in bocca sua, si storpiano. Lo fa per convinzione propria, avendone già data ampia manifestazione, ma anche, evidentemente, perché ritiene che determinate affermazioni possano risultare premianti al momento del voto. La qual cosa indica che sussiste un “mercato elettorale”, un bacino di votanti disponibili a rispondere al richiamo di certe polemiche. Il fuoco estenuante delle polemiche si baricentra allora da subito su Israele, sulle sue scelte politiche, soprattutto sulla sua esistenza politica. Letteralmente. Poiché in questi casi si può stare certi che ad essere in discussione è questo obiettivo. Con un ambiguo ondeggiare tra antisionismo conclamato, rivendicato, esibito, a volta più che scompostamente, e qualcosa d’altro. Di peggio. Si lancia la pietra contro il cristallo, si esibisce orgogliosamente la mano, si dichiara d’essere fieri di quanto fatto affermando, nel medesimo tempo, che nulla di male è accaduto. Anzi, ci si cinge il capo dell’aureola di martire qualora vengano avanzate obiezioni. Dinanzi a certi sgradevoli “spettacoli” viene spontaneo chiedersi se valga la pena di tornare su quelle parole, e su tante altre, che si accavallano tra di loro, radicando comunque un risentimento potente e, in prospettiva, potenzialmente aggressivo. Il singolo episodio non dice più di tanto se non fosse per il fatto che riafferma e consolida un cliché oramai diffuso che, purtroppo, nessun Giorno della memoria potrà mai scalfire. Il cortocircuito tra passato e presente, tra i ruoli di vittime e quelli di carnefici, la loro sovrapposizione e il loro ribaltamento (“vittime nel passato, carnefici nel presente”), costituiscono il terreno prediletto in quei percorsi di banalizzazione, manipolazione e svuotamento del significato del ricordo della tragedia dello sterminio. E della sua ricaduta morale e civile, in Europa come nel mondo, che in questi casi infatti si azzera. Non esistono vittime assolute così come carnefici totali, ossia parti assegnate una volta per sempre. Non di meno, il punto non è questo: non lo è, infatti, per quanti vogliano intendere la storia nella sua complessità, nel grande numero di protagonisti – attivi e passivi – che vi prendono parte, nei percorsi di mutamento che raccoglie e quant’altro. Mentre lo è senz’altro per coloro che ragionano su di essa (o fingono di farlo) nei termini di una partita di calcio, tra squadre differenti, posizionandosi come fanno i tifosi. Magari alla ricerca di una claque, già disposta sugli spalti, e dei suoi applausi. Uno scempio, non molto di più né molto di meno. In un’età dove anche l’ultimo testimone si accinge a congedarsi da noi, sempre più spesso avremo a che fare con fenomeni distorsivi di questo genere. La memoria è un campo di battaglia. Per coloro che la coltivano con l’onestà di pensiero e di intendimento e per chi, invece, lo fa con tutt’altri fini. Non c’è nulla di acquisito una volta per sempre. Punto e a capo.
Claudio Vercelli
(19 gennaio 2014)