Il Leone d’Israele che sapeva prestare ascolto
“Non aveva bisogno di chiedere lumi ad altre persone per assumere le sue decisioni. Ma nel corso della maturazione delle sue decisioni, amava consultarsi, era un avido consumatore di informazione, attentissimo ai dettagli, gentile e rispettoso con i suoi interlocutori”.
Sul giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche di febbraio, presto in distribuzione, Sergio Della Pergola, l’ultimo consigliere strategico del grande leader israeliano Ariel Sharon, massimo esperto di demografia ebraica e docente di punta all’Università ebraica di Gerusalemme, traccia un ritratto inedito dello statista recentemente scomparso, ripercorrendo la sua carriera militare e politica. Un’occasione straordinaria di comprendere la realtà e la complessità di Israele al di là dei luoghi comuni. Ne anticipiamo i contenuti qui di seguito. Per ricordare Ariel Sharon si è svolta fra l’altro a Roma una serata nel centro comunitario di via Balbo, con molti interventi e la partecipazione dell’ambasciatore d’Israele Naor Gilon e del corrispondente della Stampa Maurizio Molinari.
Alla fine del nostro ultimo incontro sui problemi della demografia ebraica in Israele, alle tre e mezza del pomeriggio del 18 dicembre 2005, Ariel Sharon, seduto di fronte a me al tavolo delle riunioni del governo di Israele, mi chiese: “Posso tenermi i fogli del tuo powerpoint?” Al che gli risposi: “Ma certo, Signor Primo Ministro, è tutto suo!”. La domanda rivoltami era stupefacente: l’uomo più potente di Israele, abituato a dare ordini centinaia di migliaia di soldati e a determinare i destini di milioni di civili, mi chiedeva con un ampio sorriso, quasi timido, se poteva tenersi i miei grafici e le mie tabelle per poterli studiare più attentamente in vista di una prossima ripresa della nostra conversazione. Che però non ci sarebbe stata: quella stessa sera Sharon subiva il suo primo ictus dal quale si sarebbe ripreso solo per subirne due settimane dopo un secondo, questa volta fatale e irreversibile. Poi, dopo otto anni, Ariel Sharon se n’è andato, il più grande soldato e l’ultimo dei grandi leader che hanno creato e guidato lo Stato ebraico, o – nelle parole dello Sceicco Nasrallah, capo di Hezbollah – l’ultimo re d’Israele. Nella storia di Israele, Sharon si è assicurato un posto certo come geniale e carismatico comandante militare – gravemente ferito a Latrun nella guerra d’indipendenza nel 1948, fondatore e stratega del commando dei paracadutisti nel 1950, autore del lancio al passo di Mitle nella la campagna del Sinai nel 1956, vincitore della decisiva battaglia di mezzi corazzati a Um Catef nella guerra dei Sei Giorni del 1967, autore contro gli ordini dei suoi superiori dello sfondamento del fronte egiziano sul Canale di Suez nella guerra del Kippur nel 1973. Il suo prestigio fu gravemente compromesso nella prima guerra libanese del 1982 per le eccessive perdite militari subite nella melma maronita-sciita-sunnita-drusa. Ma la caduta venne soprattutto per la strage di Sabra e Shatila, un tragico momento di annebbiamento del livello di giudizio generalmente lucido di Sharon che non impedì alle sanguinarie orde cristiane di compiere il massacro di centinaia di palestinesi. L’errore ingenuo e grave fu quello di avere fiducia nell’alleato maronita. Furono le Falangi cristiane a massacrare, e ancora oggi aspettiamo un’autorevole voce di presa di responsabilità e di condanna definitiva di quell’atto abominevole – dal pulpito di Roma o da altra apostolica sede. Invece la strage – esemplare atto di libello di sangue – fu accollata agli israeliani e costò a Sharon l’allontanamento dal posto di ministro della Difesa. Anche come politico Sharon ha lasciato un segno indelebile: fondatore del Likud e anni dopo di Kadima, grande architetto e costruttore di insediamenti nei territori palestinesi, ma anche protagonista dello sgombero della zona di Yamit nel 1982 e di Gush Katif nel 2005. Gli ingrati zeloti, oggi critici di Sharon, dovrebbero ricordarsi che senza di lui loro non sarebbero mai esistiti. Sharon fu anche protagonista della costruzione della prima casa per centinaia di migliaia di nuovi immigrati dall’Unione Sovietica. Divenuto primo ministro disse: “Da qui si vedono cose che da lì non si vedono”, e iniziò una drammatica stagione politica. Da un lato, una durissima repressione del terrorismo palestinese; dall’altro, l’inizio di un’inevitabile separazione fra israeliani e palestinesi con la costruzione della barriera di difesa che segnalava alle due parti l’esistenza di uno spazio territoriale e politico inevitabilmente da suddividere. L’obiettivo dichiarato era di assicurare a Israele uno stato permanentemente ebraico e democratico, non uno stato binazionale o uno stato di apartheid. Sharon, come Ben Gurion e come Begin, aveva ben presenti e spesso richiamava le necessità e il destino del popolo ebraico, in Israele e nella Diaspora. Avevo ascoltato per la prima volta Sharon alla cena conclusiva della conferenza di Herzliya il 4 dicembre 2002, seduto a pochi metri da lui. Assieme a una durissima requisitoria contro l’Autorità palestinese, Sharon pronunciò queste due storiche frasi: “Negoziati saranno aperti per determinare lo status finale dello Stato palestinese e per fissare i suoi confini permanenti. Israele è disposto a fare concessioni dolorose per una vera pace”. Quella sera pensai di avere bevuto troppo e di non aver ben capito, ma era l’annuncio di una scelta consapevole. Il 25 ottobre 2004 Sharon ribadì drammaticamente alla Knesset: “Noi non vogliamo governare in modo permanente su milioni di palestinesi che raddoppiano il loro numero ogni generazione”. Era la presa di coscienza di un problema demografico oltre che civile che nell’agosto del 2005 avrebbe portato alla hitnatkút, lo sgombero delle truppe e degli insediamenti da Gaza e dalla parte settentrionale della Samaria. Un ulteriore ritiro da altre parti della Cisgiordania sarebbe sicuramente seguito se non fosse intervenuta nel 2006 la vittoria di Hamas e del terrorismo negazionista alle elezioni di un’Autorità palestinese rinnovata fino al 2011 (e poi scaduta). E poi il grave ictus. La centralità della demografia nel pensiero di Sharon derivava certo dalle sue letture ma probabilmente anche dall’influenza di Ehud Olmert. Olmert, alle origini collocato a destra del Likud, era stato sindaco di Gerusalemme dal 1993 al 2003. Per lui avevo preparato le proiezioni demografiche per il piano di sviluppo fino al 2020 che indicavano la forte erosione fino alla quasi scomparsa della maggioranza ebraica in città. Nel rapporto finale scrissi che se si voleva mantenere la capitale come città ebraica, era necessaria la separazione dei quartieri arabi da quelli ebraici. Olmert mi disse che non era d’accordo ma che la mia voce era importante, e intanto era diventato il consigliere più vicino di Sharon. Forse fu lui a convincerlo che i tempi della demografia giocavano nettamente a sfavore della parte ebraica. Nel luglio del 2005, i ricercatori del Jewish People Policy Institute di cui allora facevo parte furono invitati alla seduta di governo in cui si parlò fra l’altro della demografia degli ebrei nel mondo e in Israele. Il più diligente attorno al tavolo era Sharon che prendeva appunti e alla fine sintetizzò bene la discussione. Convenimmo di rivederci per discutere più a fondo dei problemi. Ci trovammo nel suo ufficio con i suoi principali consiglieri, e sia all’inizio sia alla fine della seduta lui espresse la sua preoccupazione per la situazione del popolo ebraico, anche se non prese parte attiva al colloquio. Con Sharon e i suoi più alti funzionari ci rivedemmo ancora in dicembre per discutere più concretamente del rapporto maggioranza/minoranza in Israele e soprattutto dei livelli della natalità nel paese. Presentai un’analisi delle tendenze e delle politiche possibili a favore delle famiglie intese a sostenere quelle ebraiche senza discriminare quelle arabe. Col suo senso dell’umorismo un po’ cinico Sharon si rivolse al segretario generale del governo e gli chiese “Tu quanti figli hai?” E alla risposta “Due” gli replicò “Vai subito a casa e fai qualcosa”. Discutemmo soprattutto della necessità di provvedere sovvenzioni agli asili nido per permettere alle giovani coppie di lavorare e di poter raggiungere e mantenere il numero di figli desiderato che in Israele è in media 3-4. L’idea, che in seguito ebbi modo di discutere anche con gli uomini di Olmert divenuto primo ministro, sarebbe stata finalmente applicata dal governo Netanyahu dopo i movimenti di protesta dell’estate del 2011. Alla fine dell’ultima riunione con Sharon fui molto impressionato dalla franca e amichevole stretta di mano, dal gran sorriso dell’uomo che non era più seduto, e in piedi di fronte a me mi sembrava sorprendentemente basso e largo, ben più che non nelle immagini televisive. Sharon per prendere le grandi decisioni non aveva bisogno di chiedere lumi ad altre persone. Ma nel corso della maturazione delle sue decisioni, amava consultarsi, era un avido consumatore di informazione, attentissimo ai dettagli, gentile e rispettoso con i suoi interlocutori. Con lui è passato l’ultimo grande timoniere della politica in Israele – a meno che, chissà, l’attuale Premier non si decida ad assumere questo ruolo.
Sergio Della Pergola, Università ebraica di Gerusalemme
Pagine Ebraiche, febbraio 2014
(20 gennaio 2014)