Qui Venezia – Il destino dei profughi ebrei
La letteratura accademica sulla Shoah si ferma al momento dell’apertura dei campi, della liberazione di Auschwitz, lasciando a volte un interrogativo su quello che è stato il destino dei sopravvissuti alla macchina di sterminio nazista.
Con i suoi studi Martina Ravagnan, introdotta da Shaul Bassi nel suo intervento ieri al Museo Ebraico di Venezia, getta luce sulla storia dei profughi ebrei all’indomani della fine della seconda guerra mondiale. L’appuntamento organizzato nell’ambito delle iniziative per il Giorno della Memoria, è stato organizzato in collaborazione con il Centro veneziano studi ebraici internazionali e l’Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea (Iveser).
Nel maggio del 1945 i vincitori si trovarono a dover gestire circa 10 milioni di profughi nei territori di Germania, Austria e Italia. Questa massa di persone così consistente ed eterogenea per nazionalità era costituita da ex prigionieri di guerra, civili in fuga, internati dei campi di concentramento e di lavoro ed ex collaboratori volontari del regime nazista.
A settembre del 1945 gli Alleati riuscirono a rimpatriare la maggioranza dei profughi, ma un milione e mezzo si rifiutò di essere rimpatriato. Erano i cosiddetti “Displaced Persons” termine coniato dal sociologo e demografo di origine russa Eugene M. Kulisher. Più della metà di essi provenivano dalla Polonia, ma erano presenti anche Ungheresi, Baltici, Jugoslavi. Una minima parte pari al 3 per cento era poi costituita da 53 mila ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento.
Tali sopravvissuti, sebbene indicassero i campi di raccolta in cui vivevano con il termine “di-pi lagern”, si riferivano a se stessi come Sheyres Hapleyte termine yiddish dall’ebraico She’erit Hapleitah, riprendendo e attualizzando la formula biblica che indicava i rifugiati ebrei sopravvissuti alla conquista assira di Israele. Letteralmente “il rimanente che è stato salvato” oppure “il rimanente salvifico”.
I campi profughi erano gestiti dall’agenzia delle Nazioni Unite Unrra, ma da un punto di vista di sostegno economico si impegnarono varie associazione americani interazionali tra cui l’American Joint Distribution Committee (Joint). L’Italia ebbe un ruolo chiave in questa operazione per di qui passarono infatti più di 40 mila profughi ebrei. Questo flusso era dovuto a questioni geografico-strategiche: era facile arrivare in Italia tramite i valichi alpini e altrettanto facile per le navi del Mossad trovare dei piccoli porti lungo le coste italiane. Un altro motivo era rappresentato dall’atteggiamento delle autorità italiane, meno restrittivo rispetto a quello degli inglesi che limitava l’entrata di profughi in Palestina.
La quasi totalità dei profughi ebrei cercò di entrare in Italia attraverso il Brennero. Ogni settimana, circa 500 sopravvissuti ebrei attendevano la notte al valico alpino per poi arrivare al vicino campo di accoglienza di Merano organizzato dal gruppo clandestino Brichah o a Tarvisio nel campo organizzato dalla Brigata ebraica.
In tutto erano 17 i campi profughi italiani, distribuiti in tutta la penisola nelle vicinanze delle città principali. Il più grande era situato a Grugliasco nelle vicinanze di Torino, a Cremona, Modena, Reggio Emilia e a Cinecittà. Molto importanti e attivi furono i campi della Puglia, in particolare nel Salento, come ultimi luoghi di accoglienza prima della partenza per la Palestina. Una seconda soluzione abitativa era rappresentata dai Kibbutzim e Hakhsharoth presenti in Italia da prima della guerra.
I profughi costituirono degli organismi di rappresentanza nei campi e dei comitati autogestiti. La prima conferenza dei profughi ebrei in Italia si svolse a Ostia con 150 delegati da tutta la penisola eletti democraticamente. Qui trova ufficializzazione l’Ojri, l’Organizzazione dei profughi ebrei in Italia. Tra le diverse sezioni dell’Ijri che si occuperanno delle problematiche riscontrate nei campi, la più importante risulterà essere quella culturale con il 28 per cento del budget totale. L’educazione e la cultura sono viste come elemento identitario fondamentale per ricostruire una vita ebraica dopo la Shoah: nel 1947 ci sono più di 52 scuole e un liceo a Roma. Ogni campo presenta una sua biblioteca, sale di lettura, teatri e giornali, con più di 150 pubblicazioni in lingua Yiddish nella sola Germania.
In Italia il giornale più diffuso, fu il settimanale in lingua yiddish Bederekh, l’organo ufficiale del Comitato centrale dell’Ojri, con una tiratura di 3000 copie. Esisteva anche un settimanale letterario pubblicata dall’Unione degli scrittori, giornalisti ed artisti ebrei in Italia, associazione creata nel marzo 1946.
Emblematica la nota di redazione in risposta a chi metteva in dubbio l’utilità della rivista letteraria: ”E’ necessario pubblicare un giornale letterario per la piccola Comunità ebraica in Italia? Per una Comunità temporanea? Non è questo un lusso? Sì è un lusso se la cultura stessa è un lusso. I tedeschi hanno sterminato gli ebrei, ma per la loro cultura non hanno trovato una camera a gas, la cultura è rimasta. Vendetta. Vendetta è stata richiesta dalle migliaia di scritte lasciate sui muri delle prigioni tedesche, e vendetta significa che non solo noi viviamo, ma che siamo creativi. I tedeschi non hanno raggiunto il loro scopo: siamo creativi, creiamo opere culturali anche quando siamo in cammino, anche durante una breve tappa, anche in una cabina o in una baracca sulla via.”
Una posizione netta che sottolinea la volontà di reagire a ciò che è accaduto, di opporre al tentativo di distruzione di un’intera realtà culturale una vendetta di creatività culturale come vittoria morale sul nazismo.
Michael Calimani
(21 gennaio 2014)