…responsabilità

I fatti di Roma stanno sconvolgendo tutto il mondo ebraico italiano. È inutile cercare di sminuirne la gravità ed è inutile, ora, cercare di tirarsi indietro dalle responsabilità, come è inutile cercare di eufemizzare il dibattito, che chiede di essere affrontato a viso aperto, se non si vuole semplicemente mettere un momentaneo silenziatore a un’arma carica.
Qualcuno ha insegnato a intendere il dialogo come il monologo interiore di chi si guardi allo specchio e si dia ragione. C’è chi pensa che l’altro non abbia il diritto né di pensare né di esprimere la propria idea e sia, per il puro fatto di essere l’altro, sempre nel torto. E ci sono Maestri d’intelletto che dichiarano giusto zittire l’altro. Ma chi è costretto al silenzio non si convince dei suoi errori, si convince invece di aver di fronte un avversario incapace di far valere le sue ragioni se non con il sopruso, anziché con la logica e con la parola. Il silenzio dell’altro non rende di per sé giuste le proprie idee, e soprattutto non rende migliore la causa che si difende.
L’alibi per questa vittoria della sopraffazione violenta sarebbe l’amore assoluto per Israele. Come se chi la pensa criticamente nei riguardi di una politica israeliana contingente non avesse anche lui contato i suoi morti nella Shoah o non avesse anche lui i suoi amici e i suoi parenti in Israele, non avesse anche lui, con Israele, la sua storia d’amore. Qualcuno non vuole che si parli di fascismo e di squadrismo. Non ne parleremo. Ma qualcuno sta ben scrivendo, su media diversi, di tradimento dell’ebreo di sinistra. Una definizione, oltre che una ragione, per tutto ciò la si deve pur trovare. A meno che il protrarsi della situazione non giochi a favore di una certa visione politica della vita comunitaria. ‘Cui prodest’ è sempre un interrogativo lancinante che squarcia il sereno equilibrio di ogni riflessione sull’argomento.
Sapere poi, come afferma qualcuno, che c’è chi cerca visibilità o carriera cavalcando l’ebraismo non rende certo giusta la prepotenza con cui lo si contrasta. E che sia un rabbino a giocare su questo equivoco non fa bene né all’etica né all’immagine. Perché dal rabbino mi aspetto che insegni il dovere del rispetto reciproco, non che giustifichi, per qualsiasi motivo, le prevaricazioni. Che mi insegni soprattutto – se qualcosa ha da insegnarmi – a non giudicare l’altro fino a che non ci si sia trovati al suo posto (Pirké Avoth), ossia finché non si siano colti – in buona fede – i suoi reali intenti. Chi giudica, inoltre, dovrebbe partire dalla premessa necessaria di un proprio giudizio di sé, perché gli intellettuali che approfittano di situazioni e posizioni a fini di visibilità o di carriera ci sono su ogni versante della politica, e anche su ogni versante della società: ebraica e non, borghese o di ghetto, laica o religiosa. Dai Maestri ci si aspettano altri insegnamenti che non siano le giustificazioni partigiane per una lotta fratricida. E chi ha acceso le micce ha ora il dovere di sporcarsi le mani per disinnescarle con una generosa concessione al senso di responsabilità. E gli auguriamo di non bruciarsi.

Dario Calimani, anglista

(21 gennaio 2014)