rabbini…
Che qualcuno ci dica davvero di cosa possono parlare i rabbini. Che qualcuno ci indichi la strada del nostro pensiero, dei nostri interventi, delle nostre analisi sociali. Che qualcuno ci dica anche come parlare. Che qualcuno ci faccia sapere se è lecito per un rabbino avere un’idea politica, dei pensieri sul sociale, delle energie rivolte al mondo in cui vive e persino entusiasmi per l’azione politica. Che qualcuno ci faccia sapere se è giusto che un rabbino scriva di grammatica francese come faceva Rashi, di astronomia, di storia, di pensiero politico. Che qualcuno ci faccia sapere se è giusto che un rabbino parli della e con la società che lo circonda. Che qualcuno ci faccia sapere se un rabbino debba vivere nella sua società, con il bello e il brutto che questa ha da offrire o si debba ritirare in una torre d’avorio halachica. Che qualcuno ci dica se un rabbino debba esistere pubblicamente solo come ripetitore di un mantra morale che predichi la pace anche se avulsa da ogni contesto e da ogni responsabilità sociale. Una sorta di Filippo Neri che dica fino allo sfinimento: “State buoni se potete.” Perché davvero non capiamo colui chi si è irritato a causa dell’intervento di quel “rabbino che gioca sugli equivoci” che si è permesso di scrivere dei fatti di Roma. Non capiamo di cosa ci si debba preoccupare. Forse preoccupa quella che è stata definita un’assenza di insegnamento etico del rabbino o della sua partigiana analisi? O forse a preoccupare è il fatto che un rabbino per circa una quindicina di righe non abbia parlato di kasherut o di come sistemare le candele di shabbat, ma sia stato figlio del suo popolo e in nessun altro modo? Forse preoccupa che il rabbino abbia sentito gravi le azioni di chi ha silenziato ma abbia descritto come più gravi le responsabilità degli altri mondi di intelletto? Forse preoccupa che i giovani rabbini (supponiamo che il rabbino giocoliere abbia meno di quaranta anni) di oggi pretendano di pensare e di esprimere il loro pensiero anche fuori dagli orari delle teffilot, delle milot, dei funerali e dei sedarim di Pesach? Forse preoccupa che i giovani rabbini siano preoccupati dai fatti di Roma ma siano ancora più preoccupati dai passaggi generazionali identitari del mondo ebraico italiano? Forse preoccupa che un giovane rabbino veda violenza anche nelle provocazioni democratiche e non solo nelle manifestazioni che rispondono a quelle provocazioni? Forse preoccupa che ci siano oggi ebrei più preoccupati dell’onore del proprio popolo e della sua legittima esistenza, prima ancora che del legame d’amore che ogni ebreo può avere con la propria storia e con lo Stato di Israele? O forse un certo mondo antico ebraico fa fatica a navigare nella modernità di tempi che cambiano, di ebraismi che mutano più velocemente dell’immagine sociale e storica che abbiamo delle nostre comunità? O forse un certo mondo antico ebraico non ha mail letto le appassionate parole del grande maestro Shemuel David Luzzatto (1800-1865) quando si espresse politicamente a favore di una rivoluzione (!), quella italiana contro l’Impero Austriaco. Come si permise Shadal si scrivere di politica? Come si concesse l’abbandono, seppur momentaneo, dei sacri testi per inneggiare alla (partigiana) cacciata dei tedeschi da Verona o per lodare “l’Italia intera, fraterna come un sol uomo che lo spirito del Signore la spinge a liberarsi dal giogo degli stranieri” (cfr. la Rassegna Mensile di Israel terza serie, Vol. 64 No 1, Gennaio Aprile 1998). Sembra quindi che lo sguardo sulla società, ebraica o non ebraica che sia, abbia radici più antiche delle preoccupazioni dei nostri contemporanei che non vedono nei rabbini quegli uomini che, come scrisse rabbi Eliezer Berkovits in Essential Essays on Judaism, sono chiamati ad essere un “luogo dove si incontrino l’Europa ed il Monte Sinai”. Uomini che abbiano “carattere abbastanza forte da resistere alla pressione derivante dal lasciare i molti problemi irrisolti, forte abbastanza da pensare onestamente, eppure in grado di tradurre i pensieri in azione, un carattere cauto ma audace”. Uomini che, come disse rav Zalman Shechter parlando degli Stati Uniti: “Da adesso in poi sarà impossibile che un rav possa servire in America se non sa giocare a baseball, come allo stesso modo non può essere rav senza saper insegnare la Ghemarà.”
I nuovi, ma neanche tanto nuovi rabbini, sono uomini (e non giocolieri nonostante le regole del baseball) che malgrado tutto possono comunque insegnare qualcosa anche a chi si è preoccupato. Possono insegnare il valore di un’analisi personale che non per questo debba essere stigmatizzata come una scomoda predica. Le prediche le lasciamo al prologo dell’Indulgenziere contenuto nei Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer. Afferma il venditore di indulgenze: “Predico cioè sempre contro la cupidigia, contro lo stesso vizio che anch’io pratico continuamente. Eppure, per quanto io sia colpevole di questo peccato, riesco ancora a convincere gli altri a liberarsene e a pentirsi amaramente. Ma non è questo il mio vero scopo… Io infatti non predico se non per avidità! Ma di questo ne avrete già abbastanza…”. Perdonerete la mia traduzione, ma non sono un anglista.
Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
(24 gennaio 2014)