“Restituiamo agli italiani la Memoria”

loewenthalC’è una stagione, una data, in cui ogni ebreo italiano è sollecitato, quasi costretto, a prendersi carico della Memoria. Non la memoria propria, quella che il calendario ebraico scandisce nelle date del lutto e della riflessione, quella tramandata nelle famiglie di generazione in generazione, quella costantemente sfiorata, quotidianamente incombente che si fa cosa viva, passaggio necessario e insostenibile. No, non quella. Ma la memoria della società civile, della scuola, delle istituzioni, dei giovani. Con la sete di memoria di un’Italia che non riesce ancora a fare i conti con le proprie responsabilità storiche e attua un processo sostitutivo, e mette gli ebrei sotto i riflettori per compensare un grande vuoto con la loro presenza. Ci sono libri, film, produzioni teatrali e musicali, discorsi di stagione. Non è quindi stata un’azione solitaria o inconsueta, proprio sul finire del mese di gennaio, in prossimità del Giorno della Memoria, l’uscita in libreria dell’ultima fatica della scrittrice e traduttrice Elena Loewenthal, uno dei letterati che più si sono impegnati per la conoscenza della letteratura ebraica contemporanea e uno degli autori che nella loro produzione più hanno tentato di tradurre sulla pagina la loro sensibilità nei confronti del problema della Memoria. Eppure il libro, quasi un pamphlet, una raccolta di riflessioni e di idee questa volta lontana dalla prova letteraria, nell’ambito della grande produzione culturale dedicata alla Memoria in questa stazione, si nota.

Una copertina vivida, un prezzo invitante, alla portata di tutte le tasche, che promette grandi diffusioni e questo titolo forte, graffiante, quasi traumatico, che sorprenderà molti: “Contro il Giorno della Memoria”. E la firma di una intellettuale ebrea italiana molto in vista. Perché?
Devo riconoscere – spiega Elena Loewenthal – che il titolo scelto dall’editore è molto forte e che mi sento più a mio agio con il sottotitolo “Una riflessione sul rito del ricordo, la retorica della commemorazione, la condivisione del passato”. Si tratta certo di una provocazione stagionale, ma anche di un processo molto sofferto, della risposta a una domanda che mi ha perseguitata a lungo.

Quale domanda?
Dopo tanti anni di Giorno della Memoria, di memoria istituzionalizzata, ufficializzata, credo sia inevitabile domandarsi se noi ebrei ricordiamo così. E la mia risposta è no. Non è la retorica, non è la ridondanza, non è l’abbondanza delle parole. Il nostro modo di ricordare è diverso, è altro. È presente ogni giorno. Ed è composto di molti silenzi.

Eppure in questi ultimi anni abbiamo assistito a una intensificazione del lavoro sulla Memoria e da molti questa è considerata la migliore prevenzione perché non tornino gli errori del passato.
Credo che le sollecitazioni che arrivano in campo ebraico in questa occasione dovrebbero essere riconsiderate meglio. Siamo chiamati a salire alla ribalta. Ci dedicano uno spazio, talvolta anche significativo. Ma torniamo ai motivi ispiratori del Giorno della Memoria. Il 27 gennaio fu il giorno in cui furono aperti i cancelli di Auschwitz. Il momento in cui gli altri videro la realtà della persecuzione e dello sterminio. È la memoria vista dall’esterno, non dall’interno della storia di sofferenza dei perseguitati. E così dovrebbe restare uno spazio per far crescere la consapevolezza delle popolazioni europee, per aiutare l’Europa a fare i conti con il passato. Non è roba nostra, non è un problema nostro e nessuno ci fa una cortesia. Non è uno spazio di conoscenza della cultura ebraica. E non possiamo essere noi i protagonisti di questo processo di recupero della memoria.

E questo equivoco comporta dei rischi?
L’assuefazione alla memoria di comodo, alla celebrazione della memoria, non è solo deteriore, ma anche pericolosa. Perché pone il problema al di fuori del campo dove deve trovarsi e finisce per deresponsabilizzare chi crede di fare in una giornata i conti con il problema della memoria e dell’identità dell’Europa.

La soluzione quale sarebbe?
Non ho una risposta. Ma credo che in quanto ebrei dovremmo riflettere sulla possibilità di fare un passo indietro. Di spiegare alla società che la Memoria deve essere un suo patrimonio e una sua conquista, non un momento di omaggio e di riconoscenza per rendere noi protagonisti. Dovremmo aiutare gli italiani a riappropriarsene. Più si rende in questa occasione omaggio alla cultura ebraica e meno si capisce il problema proprio e la memoria propria. Il mito degli italiani brava gente, certo fondato sul reale coraggio dimostrato da alcuni, ma contraddetto da molti altri provvedimenti e azioni di cui l’Italia porta la responsabilità, è per esempio molto cresciuto da quando il Giorno della Memoria è stato istituito. Così facendo non cresce la coscienza civile, e proprio per questo dovremmo credo chiamarci fuori.

Come vede oggi quello che accade in questa stagione?
Siamo nel pieno di un fenomeno ipercelebrativo che non favorisce una crescita, non accresce per la popolazione italiana la capacità di fare i conti con il passato. E questo obbedisce alle norme di una società dove conta solo l’evento e tutto, dal contenuto dei giornali alle uscite in libreria, deve obbedire alla logica dell’evento. Il mercato editoriale passa direttamente dalla stagione delle strenne di dicembre alla stagione della memoria.

Lei ha parlato recentemente in maniera critica di quella che ha definito una civiltà eventuale in quanto mercato delle idee e della cultura dipendente dagli eventi che vengono organizzati. Perché?
Rendere per esempio la produzione letteraria un fatto eventuale significa perdere il senso della letteratura come creazione fine a se stessa, svincolata dal gusto per la scoperta e per il mistero. Di questa mutazione fa parte la proliferazione del fenomeno dei festival letterari e più in generale la sensazione che scrivere, leggere, fare cultura costituiscano dei doveri. Si tratta di una tendenza molto pericolosa, che porta molte persone alla sensazione di essere usciti d’obbligo, di aver spicciato l’incomodo di un’incombenza che sarà presto dimenticata.

Eppure proprio lei in questo mercato letterario ha portato opere sue e traduzioni di grandi opere di scrittori israeliani che hanno appassionato innumerevoli lettori.
Ma è proprio questo, credo, il segreto della grande letteratura ebraica contemporanea. La ricerca della scoperta e della sorpresa, l’esplorazione di un mondo come è Israele, sospeso fra esotismo e familiarità.

In questi anni lei ha conquistato una grande conoscenza del mercato letterario. Quali sono le evoluzioni in corso?
La crisi si sente e tende a comprimere anche la voglia di leggere degli italiani. Credo che sarebbe necessario fare meno libri, ma meglio meditati. Se andiamo a leggere le classifiche delle vendite, fra l’altro, possiamo identificare molti oggetti non letterari, un vero e proprio mercato parallelo di prodotti civetta che rischia di confondere le idee.

Dopo aver lanciato questa provocazione, la pagina del 27 gennaio 2014 della sua agenda è rimasta coerentemente vuota?
Al contrario, condividendo i miei interrogativi con il lettore è come se mi fossi liberata di un grande peso. E per la prima volta dopo tanti anni ho accettato l’invito di presentare i miei libri anche in occasione del 27 gennaio.

Cosa vuole ottenere, in definitiva, con questo libro-appello?
Esercitare il dovere civile di restituire la Memoria agli italiani. E fare della Memoria un’esperienza viva, non un esercizio di retorica. Per noi ebrei la retorica si è sempre rivelata il peggiore dei veleni.

Guido Vitale, da Pagine Ebraiche febbraio 2014

(Il disegno è di Giorgio Albertini)

(31 gennaio 2014)