Identità: Yehudah Burla
Nel 1958 l’allora Primo ministro dello Stato di Israele, David Ben Gurion si è trovato a gestire il fatto che la nozione stessa di identità ebraica era diventata in Israele oggetto di una legislazione che avrebbe avuto implicazioni pratiche cruciali. A cinquanta “Saggi di Israele” Ben Gurion pose la domanda divenuta il titolo del lavoro del professor Eliezer Ben Rafael, che in un e-book intitolato “Cosa significa essere ebreo?” – scaricabile dai siti www.proedieditore.it e www.hansjonas.it – ha messo in luce per la prima volta in Italia quella discussione sistematica sull’identità ebraica. Ogni domenica, sul nostro notiziario quotidiano e sul portale www.moked.it, troverete le loro risposte.
Yehudah Burla (1866-1969)
Uno dei primi scrittori in ebraico moderno di origine mediorientale, Burla è nato a Gerusalemme in una famiglia di origine turca arrivata in Palestina nel XVIII secolo. Sudia al seminario per maestri a Gerusalemme (1908-1911). Durante la Prima guerra mondiale combatte nell’esercito turco. Dopo la guerra, svolge per cinque anni la funzione di direttore delle scuole ebraiche di Damasco. Ritornato nel proprio Paese, Burla è incaricato della sezione araba della Confederazione sindacale e, nel 1948, è nominato responsabile del dipartimento arabo del Ministero delle Minoranze. Più volte è stato presidente dell’Associazione degli scrittori. La sua opera riguarda soprattutto le vecchie comunità sefardite di Israele come quelle di Safed e di Hebron. Tra i suoi lavori: Lunah (1911) e Ishto ha-senuah (La moglie odiata) (1928).
Haifa, 1 tevet 5719 (12 dicembre 1958)
Caro Signore, Quando ho risposto alla Sua lettera relativa all’iscrizione dei figli come ebrei, pensavo che la questione fosse urgente e ho scritto una risposta breve e poco chiara. In seguito ho però pensato che dovevo esprimermi meglio e adesso Le invio la mia opinione pregandoLa di annullare la prima perché quella è inclusa in questa che ha qualche spiegazione in più. Con tutto il mio rispetto, Yehudah Burla
1. A mio parere, per iscrivere un figlio come ebreo, è necessaria una sola e unica cerimonia: la circoncisione. Primo comandamento e il più antico dato al patriarca Abramo, la circoncisione è stata santificata dal popolo ed è indissociabile dall’esistenza stessa di un bambino ebreo. Essere ebreo è innanzitutto essere circonciso. 2. Non c’è, di conseguenza, in questo rito alcuna coercizione religiosa (per qualsiasi bambino, siano entrambi i genitori ebrei o se lo sia uno solo dei due), perché diventare ebreo è indissociabile dalla circoncisione e la circoncisione è indissociabile dal fatto di diventare ebreo; essi sono una sola esperienza. Del resto in questo rito non c’è alcun rischio per il bambino; al contrario, c’è (anche secondo la scienza medica) una forma di vaccinazione e di efficacia contro alcune
3. Se i rabbini decidono che è necessaria ancora un’altra cerimonia, è forse in riferimento alla madre (non ebrea), e se questa cerimonia comporta una certa forma di coercizione nei confronti della madre, è contraria alla legge israeliana che stabilisce che non c’è costrizione religiosa o anti-religiosa in Israele. Questa legge è per me suprema e dobbiamo osservarla con tutta la nostra volontà.
4. Se i rabbini esigono un’altra cerimonia per ubbidire alle leggi religiose, devono trovare una soluzione perché la legge umana non entri in conflitto con quella religiosa.
5. Comprendiamo molto bene la posizione dei rabbini nei confronti della Halakhah santificata e suggellata da innumerevoli generazioni (dall’epoca del Talmud, e dall’autorità dei Saggi, dai primi fino agli ultimi e agli ultimi degli ultimi). Ma essi sanno molto bene che ci sono momenti nella storia in cui i Saggi hanno capito la necessità ineluttabile di adattare ciò che è scritto nella Torah alla realtà della vita (nelle leggi di indennizzo, il Talmud impose l’uguaglianza di tutti davanti alla legge del taglione e stabilì un prezzo per i danni materiali). In questo, i Saggi invalidarono una legge della Torah che prima era stata certamente osservata dalla maggioranza. Il Talmud ha istituito anche il pruzbul perché l’anno sabbatico non impedisse il rimborso di debiti, commentando il versetto “di ciò che avrà prestato al suo prossimo non eserciterà obbligo” in modo da permettere tale obbligo quando si tratta del recupero di debiti.14 Ciò non riguarda soltanto i Saggi dei tempi antichi, dell’epoca del Talmud, ma anche quelli di epoche a noi più vicine, come per esempio Rabbenu Gershom Meor Ha-Golah che, grazie alla sua erudizione, è riuscito a sradicare una legge della Torah per proibire la poligamia, almeno per le comunità ashkenazite (herem de-Rabbenu Gershom).
6. Niente impedisce perciò i rabbini di sapere e di riconoscere che anche nella nostra epoca ci sono stati importanti cambiamenti nei modi di vivere in tutti gli ambiti – l’economia, la società, la politica e, essenzialmente, la vita religiosa. È un fatto (e non una supposizione o una valutazione) che la maggioranza del popolo israeliano – e ancora di più nella diaspora – non sono religiosi, e se i rabbini cercano di imporre loro qualcosa con la forza non ci riusciranno. Si deve anche ricordare che, se un tempo la leadership della nazione era nelle mani dei rabbini, era perché il popolo lo voleva, perché la vita del popolo era segnata dal sigillo della religione da generazioni. Del resto, il popolo voleva essere guidato dai rabbini più di quanto i rabbini volevano guidarlo. Quando però il popolo, nella sua maggioranza, ha cambiato idea, a che cosa serve la leadership dei Saggi? Sappiamo bene che senza causa non c’è effetto.
7. E adesso, se i rabbini condividono un vero sentimento nazionale, come il resto del popolo, e se desiderano veramente che lo Stato sia grande, forte e prospero e che possa assorbire nella patria una grande parte del popolo, come esiste, non dovrebbero dare il loro consenso a tutti gli sforzi per raggiungere un compromesso tra la legge religiosa e la legge dello Stato, per la pace e l’unità e per preservare la religione nel popolo? La gloria dei rabbini della nostra generazione non deve venire dall’esasperazione dei contrasti e delle difficoltà a far coabitare lo Stato e la religione ma, al contrario, dai loro sforzi per adattare, per quanto possibile, le leggi della religione alle leggi della vita e al loro sviluppo.
8. Se non lo fanno, perché loro stessi non ne sentono la capacità spirituale e l’autorità religiosa, che non accusino il popolo di rifiutare il giogo della Torah e dei comandamenti, ma che esaminino le proprie azioni, e allora capiranno che il popolo accetterà volentieri i comandamenti e le leggi quando questi corrisponderanno alle parole dei Saggi: “Vivranno per i precetti e non moriranno mediante loro”.