Qui Venezia – Il ricordo del Porrajmos
La notte del 2 agosto 1944 ad Auschwitz-Birkenau veniva liquidato lo Zigeunerlager, il settore del campo riservato all’internamento di rom e sinti, questa fu solo una delle fasi della tragedia che prende il nome di Porrajmos, il grande divoramento.
Nel 2012 Angela Merkel ha inaugurato a Berlino il memoriale dedicato al Porrajmos a poca distanza da quello della Shoah. Incisa sul monumento una poesia di Santino Spinelli, rom abruzzese. Questa notizia che avrebbe avuto senso raccontare a livello nazionale in Italia, venne trasmessa solo sul tg regionale dell’Abruzzo. In Germania già dalla metà degli anno ’80 veniva riconosciuta la matrice razziale del Porrajmos, mentre in Italia a stento si sono riconosciute le responsabilità su un tema che ancora oggi è largamente sottaciuto.
La scorsa settimana è stato presentato a Venezia, nella sala Montefiore della Comunità Ebraica di Venezia, il primo museo virtuale del Porrajmos in Italia ( www.porrajmos.it ), che mette a disposizione una raccolta di documenti e testimonianze relative alla persecuzione subita da rom e sinti durante il fascismo. Un’iniziativa a cura del Centro Pace del Comune di Venezia, dell’associazione Rom Kalderash, del Museo ebraico di Venezia e patrocinata dal Consiglio d´Europa.
La nascita di un museo virtuale non su ciò che successe in Germania, ma su ciò che accadde in Italia è di fondamentale importanza per gettare luce sul percorso che portò i rom e i sinti all’internamento anche nel nostro Paese: “Credo che se ha senso raccontare il Porrajmos – ha spiegato Luca Bravi, uno degli ideatori del progetto, introdotto durante l’evento da Shaul Bassi – ha senso in particolare se messo in relazione con la Shoah”.
Agli inizi del duemila, quando il tema cominciò a essere trattato in Italia, ci fu un momento in cui si avvertì il Porrajmos quasi in contrasto con la Shoah. Alcuni studiosi benpensanti erano convinti di doversi occupare della questione sinti e rom proprio per l’ipertrofia comunicativa che caratterizzava la Shoah; come se una tragedia cannibalizzasse per forza di cose l’altra.
“Una lettura decisamente errata – ha continuato Luca Bravi – se infatti noi oggi sappiamo cos’è successo ai rom e ai sinti internati ad Auschwitz lo dobbiamo a un internato ebreo che, prima della liquidazione dello Zigeunerlager, nascose il libro mastro con i 23 mila nomi. Lo mise in un secchio di latta, lo seppellì e intorno agli anni ‘60 tornò a recuperarlo”.
Uno dei primi testimoni che parlò della liquidazione del campo degli zingari fu però Piero Terracina, che narrò di quella notte, del rumore, del trasferimento forzato delle persone dalle baracche alle camere a gas e dell’assordante silenzio della mattina successiva.
Nel dopoguerra, la scelta di tacere sulla tragedia di rom e sinti fu più una scelta politica. Si decise di far rientrare il cosiddetto “problema degli zingari” sotto il cappello delle politiche per la sicurezza: soggetti entrati ad Auschwitz-Birkenau per loro colpe, tesi totalmente sconfessata poi dai documenti. Esisteva infatti un’unità di igiene razziale all’interno del Terzo Reich che ebbe il compito di stabilire quali fossero gli elementi che avrebbe delineato il problema zingaro come un problema razziale. Due le tesi principali: che gli zingari avevano un istinto al nomadismo, che erano asociali e che queste caratteristiche erano ereditarie.
La parte fondamentale del museo virtuale non è rappresentata solo dalle testimonianze, ma anche dalla documentazione che va a delineare alcune fasi storiche del Porrajmos italiano. La prima fase è delineata da quello che avvenne tra il 1922 e il 1938. Nell’agosto del 1926 in Italia, dove già era molto diffuso lo stereotipo dello zingaro non cittadino, viene emesso un ordine con cui si decise di rispedire le carovane di zingari al confino poiché considerate pericolose e destabilizzanti per la società. Gli zingari, anche in possesso di documenti italiani vengono così cacciati dall’Italia.
La fase successiva, tra il 1938 e il 1940, si concentrò maggiormente sull’aspetto razziale. Guido Landra, dalle pagine de “La difesa della razza”, identificò il problema degli zingari nell’ambito della problematica sul meticciato in Europa “Non soltanto i negri – disse – ma anche gli zingari” principalmente per l’istinto al nomadismo e la socialità che li rendevano un apporto razziale sfavorevole per la razza italiana.
Venne poi attuata una pulizia etnica di Rom e Sinti nell’Istria e nelle zone di confine. Il pericolo non era solo razziale, ma Mussolini era preoccupato che potessero essere spie, un’accusa che veniva rivolta anche agli ebrei. Si chiese un elenco aggiornato delle famiglie presenti, 80 soggetti, che vennero portati a Civitavecchia e poi al confino in Sardegna.
L’11 settembre del 1940 Arturo Bocchini, a capo della polizia fascista, emanò l’ordine decisivo che ribadiva il fermo proposito di combattere la “piaga zingara” attraverso il rastrellamento, l’arresto e il concentramento di tutti i rom e sinti, anche aventi cittadinanza italiana, in luoghi preposti. Si trattava di un giro di vite fondamentale: l’essere definito “zingaro” annullava in pratica qualsiasi riferimento alla cittadinanza italiana. I prefetti furono particolarmente solerti nell’adempiere agli arresti e il regime cominciò a predisporre una rete di campi di concentramento riservati agli “zingari” sul territorio italiano. Il primo luogo individuato fu a Bojano poi verso il vicino paese di Agnone presso il quale vennero spostati i 58 individui presenti a Bojano a cui si aggiunsero altri cento internati che risultano censiti nelle liste del campo all’inizio del 1943. Non solo Agnone, ma anche Berra (Ferrara), Prignano sulla Secchia (Modena), Torino di Sangro (Chieti), Chieti, Fontecchio negli Abruzzi (Chieti) e Tossicia (Teramo).
Nelle ricerche avviate dall’anno 2000, la storia di rom e sinti nel periodo nazifascista in Italia presentava un vuoto legato alle vicende della persecuzione organizzata dalla Repubblica Sociale Italiana. Era il periodo dei feroci rastrellamenti nelle zone controllate dalla Repubblica Sociale Italiana ai quali seguì la deportazione verso i campi di concentramento e sterminio del Terzo Reich di tutti i soggetti considerati oppositori del regime per motivi razziali o politici. Fino all’avvio del progetto Memors, culminato con la messa in rete di Porrajmos.it, non si era trovata evidenza di deportazioni di rom e sinti verso i campi nazisti. Le testimonianze dirette e indirette raccolte hanno permesso di colmare questa lacuna: un passo ulteriore per il riequilibrio delle responsabilità italiane, di un paese che non fu solo partigiano, ma attore e complice del genocidio.
Michael Calimani
(3 febbraio 2014)