Periscopio – Fotografie

lucrezi“The Long Journey” è il titolo di una grande mostra fotografica, organizzata dall’UNRWA (l’agenzia dell’ONU per i profughi palestinesi, che, com’è noto, è distinta dall’UNHCR, quella per i profughi ‘comuni’, con i quali i palestinesi non devono assolutamente essere confusi), finalizzata a dare testimonianza delle tribolazioni del popolo palestinese attraverso un’imponente collezione di immagini (addirittura mezzo milione). Già esposta in diverse capitali mediorientali, la mostra (a cui il Venerdì di Repubblica del 31 gennaio dedica un servizio, intitolato “La sciagura palestinese in 500.000 foto”) arriverà, in primavera, in Europa (anche a Roma), per poi spostarsi negli Stati Uniti. Immagini di dolore, miseria, sradicamento, scattate prevalentemente nei 58 campi profughi di Libano, Siria, Giordania, Gaza e Cisgiordania, nei quali si raccoglierebbero addirittura cinque milioni di rifugiati (mentre, alla data di costituzione dell’UNRWA, sarebbero stati 700mila). “L’intera mostra – si legge sul Venerdì – è come pervasa da un senso di disperazione, dettato dalle esperienze passate, dai drammi odierni e dal buco nero rappresentato dal futuro”.
Non dubitiamo che nelle immagini delle mostra sia rappresentata della sofferenza vera, davanti alla quale non ci mostreremo ma indifferenti. Né mai ci permetteremo di contestare la possibilità che la mostra sia organizzata e fatta circolare. Se la sofferenza merita sempre rispetto, però, ciò non significa che non si possano giudicare le responsabilità alla base della stessa, e, soprattutto, l’uso che di essa (e della sua esibizione) si intende fare. Così come, se le immagini devono sempre potere essere viste, è sempre lecito interpretarne il significato. Un giudizio e un’interpretazione che, a mio avviso, si possono sintetizzare in tre domande, che giriamo direttamente all’UNRWA, immaginando che i suoi dirigenti possano avere tempo, voglia e interesse a rispondere:
C’è un qualche rapporto tra le guerre di annientamento scatenate dagli Stati arabi contro Israele e la situazione dei profughi?
E’ segno di civiltà, solidarietà, umanità, razionalità che i nipoti e pronipoti dei palestinesi fuggiti nel ’48 stiano ancora, quasi settant’anni dopo, ammassati in campi profughi, pur trovandosi a vivere in Paesi dalla stessa cultura, lingua e religione? Da chi sono emarginati, segregati, umiliati, da settant’anni, i discendenti dei profughi palestinesi, chi ha deciso che essi dovranno conservare in eterno lo status di profughi?
Nel ’48 centinaia di migliaia di ebrei furono cacciati con la violenza dall’Irak, dalla Libia, dalla Siria e da altri Paesi arabi, dopo essere stati spoliati di tutti i loro beni, e i pochi rimasti furono cacciati nel 1967. Di questi, ebrei profughi dai Paesi arabi, molti andarono a vivere in Israele. Dove sono oggi in Israele i loro campi profughi? E dove sono i campi dei profughi dalla Polonia, dall’Ucraina, dalla Russia? Come mai non se ne vedono? Dove hanno nascosto i rifugiati?
Un’ultima considerazione sul “buco nero” del futuro. Esiste una qualche possibile soluzione pacifica del dramma dei profughi? Che almeno qualcuno di loro possa essere integrato nei Paesi arabi dove attualmente risiede, è un’idea, com’è noto, neanche ipotizzabile, così come suonerebbe blasfemo immaginare che qualcuno dei profughi palestinesi possa andare a vivere, figuriamoci, nel futuro Stato di Palestina. La meta del “long journey” può essere una sola, quella preferita dalle Nazioni Unite e, immaginiamo, dall’UNRWA. Il “ritorno”, non in Palestina, ma in un Israele palestinizzato. In quanti torneranno? Lo status di profugo palestinese (e solo di quello, com’è noto) si trasmette sempre, comunque e dovunque, anche ai figli di matrimoni ‘misti’, e il numero dei profughi cresce di anno in anno, di giorno in giorno, i cinque milioni sono già molti di più. Esattamente il contrario di quanto accade dall’altra parte, dove lo status di profugo scompare nello stesso momento in cui l’ebreo esiliato entra in Israele.
Le foto del “Long Journey” sono soprattutto questo: la testimonianza di grande, crudele, cinico inganno.

Francesco Lucrezi, storico

(5 febbraio 2014)