televisione…

Ebbene lo confesso: a volte guardo la televisione. Ebbene lo confesso meglio: spesso guardo la televisione italiana. Non sempre gioisco dei programmi che vedo, spesso istericamente viaggio da un canale all’altro eppure in questi giorni ho seguito un programma che mi ha incuriosito, fatto sorridere ed ebraicamente commosso. Il programma si chiama “Boss in incognito”, un format interessante che vede il presidente di una grande azienda trasformarsi, sotto copertura, in un commesso o operaio della stessa, scoprendo in questo modo eventuali falle o errori di produzione o di gestione aziendale. La prima puntata ha visto come protagonista David Hassan, presidente di una importante realtà nel campo dell’abbigliamento, ebreo tripolino arrivato come tanti altri nel 1967 a Roma. Il sig. Hassan, che non conosco personalmente, mi ha commosso più volte e con diverse sfumature di commozione che vanno dall’orgoglio per la sua (e nostra) identità ebraica e per la sua famiglia fino alla profonda umanità che ha dimostrato, al di là, delle indagini aziendali. David Hassan apre la trasmissione con il racconto dei terribili giorni di Tripoli del Giugno del 1967: la caccia all’ebreo, la Guerra dei Sei Giorni, Israele e l’arrivo a Roma di un padre, il suo, con quattro figli, un futuro da ricostruire ed un passato abbandonato con tutto il senso che una espulsione immediata comporta. Vediamo poi immagini della sua famiglia, di sua moglie Ronit, dei figli e l’orgoglio di portare il nome “di gente perbene” ma anche di gente geniale come il compianto fratello maggiore Vicky Hassan che i figli del sig. David rivedono nel padre dopo che è stato trasformato in Eddi, il commesso-operaio, che rappresenta la nuova identità di David. Eddi comincia così ad essere commesso, autista, magazziniere e operaio tessile (in Turchia). Conosce alcuni dei suoi dipendenti, guarda con attenzione i processi di produzione e vendita, i tempi e le organizzazioni, ma ascolta, chiede e umanamente si interessa della vita dei suoi dipendenti. A me piace pensare che questo sia frutto anche della sua (e nostra) identità. A me piace pensare che l’attenzione del sig. Hassan sia una eredità del suo essere figlio di “gente perbene” come ha detto lui con orgoglio, gente perbene figlia del popolo ebraico. A me piace pensare che oltre al proprietario e presidente dell’azienda, sotto copertura del format, stesse anche agendo un buon cuore ebraico. Un cuore che, con innato derech eretz (giusto, sano ed ebraico comportamento), si è vergognato quando, sotto mentite spoglie, è stato invitato a pranzo da una “collega”. Un cuore, ebraico e tripolino, che ha avuto un guizzo di compiacimento familiare, quando ha sentito che una giovane commessa era laureata in lingue e che conosceva anche l’arabo. Un cuore che non ha solo scrutato scaffali e controllato il timing degli ordini, ma ha anche premiato con vero senso di tzedakà coloro che lavorano per lui. E chi lo avrebbe mai detto che il Kiddush HaShem potesse passare anche per un programma televisivo della televisione pubblica italiana.

Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino

(7 febbraio 2014)