Il privilegio della Testimonianza
In un sistema fondato sul meccanismo punizioni/privilegi resistere non è da tutti, solo dei martiri e dei “filosofi stoici” (pochi e presto scomparsi), perché la speranza di un piccolo, spesso effimero vantaggio non può non dominare i comportamenti. Con una chiarezza fino allora mai raggiunta negli studi sulla Shoah, Levi introduce una doppia connessione: fra privilegio e memoria, fra privilegio e sopravvivenza. Lo fa chiamando in causa se stesso e i suoi compagni, e in un orizzonte culturale più complesso e variegato rispetto ai primi anni del dopoguerra. Da un lato, il lungo disimpegno diffuso fra gli storici, specie italiani, aveva fatto ricadere sulla memoria dei testimoni un ruolo di supplenza. Dall’altro, testimoniare non significava più riempire un vuoto, significava fare i conti con un pieno di immagini che venivano da libri, da film, da serie tv, da vecchi e nuovi “automatismi mentali” e da nuove o similnuove teorie filosofico-storiografiche.
Mentre – sulla scia del famoso sceneggiato televisivo “Holocaust” (1978) – si diffondono versioni semplificatrici o melodrammatiche, continuano a circolare le tesi negazioniste, secondo cui non esisterebbe prova alcuna dell’uso omicida delle camere a gas – il che equivale a irridere i morti che non possono testimoniare la propria morte. Nel frattempo si avviano nuove forme di revisionismo storico, che con argomentazioni meno drastiche (e più insinuanti) puntano a “relativizzare” lo sterminio fino a farne una variante – di spicco, ma una fra le altre – dell’imbarbarimento europeo nella prima metà del novecento. Si aggiunge, e non è affatto innocuo, un nuovo corso soggettivista, che fa leva sul rapporto sempre problematico fra la realtà e le sue rappresentazioni per negare ogni autonomia al documento, ridotto a materiale inerte utilizzabile indifferentemente per l’una o l’altra costruzione storica. Con il risultato che vero e falso perdono il loro senso proprio, per trasformarsi in opzioni inconfrontabili, come se la realtà non esistesse. E che, di fronte a posizioni alla Faurisson, si esprime sì un rifiuto morale e intellettuale, ma si esita a definirle per quel che sono: semplicemente menzogne. Sconsolante esempio di come, in omaggio alla libertà di espressione altrui, la si nega a se stessi rinunciando a chiamare le cose con il loro nome.
Verrebbe spontaneo reagire con una difesa di principio della memoria. Levi la vuole invece più solida e più forte – il che rende vitale dedicarle uno sguardo solidale ma critico. Il suo primo interrogativo in quegli anni è se la parola dei salvati sia in grado di rappresentare l’universo della prigionia. Per lui come per Elie Wiesel, il testimone “vero”, “integrale”, è il sommerso, il musulmano, l’unico soggetto che ha conosciuto il campo dal punto più basso. “La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale”. La testimonianza dei sommersi è il non poter testimoniare, il salvato lo fa per loro, “per conto terzi”.
Ma la gran parte dei sopravvissuti (grazie alla buona sorte, o a un minimo privilegio imparagonabile a quelli dei deportati/ funzionari) sono prigionieri anonimi, che guardano il campo da un angolo visuale ristretto, parziale, frammentario – vale in particolare per gli italiani, collocati agli ultimi posti nella gerarchia concentrazionaria. Non rischia, un osservatorio così limitato, di risultare poco utile come strumento conoscitivo? Sì, secondo Levi. Tanto sarebbe vero, che a farsi storici sono stati finora i privilegiati prigionieri/ funzionari, e fra questi i politici, i soli che avessero la possibilità di arrivare a una rappresentazione più ampia e più attendibile.
Non è richiesto concordare. Il fascino del pensiero di Levi sta nel suo presentarsi come una segnaletica dei problemi, non come spartiacque fra giusto e sbagliato, o come formulario di quel che si deve sapere per non apparire “retrodatati” – timore che corre sottotraccia nella nostra ansiosa cultura periferica.
Alla fiducia di Levi nella lucidità degli internati politici si può rispondere con il giudizio di Bruno Bettelheim, ex deportato, grande psicanalista, scrittore: “l’élite dei prigionieri (fatta eccezione per alcuni criminali) era raramente immune da un senso di colpa per i vantaggi di cui godeva. Ma (…) il massimo al quale di solito essi arrivavano era un maggior bisogno di autogiustificarsi. Ed essi si autogiustificavano come per secoli ha sempre fatto ogni membro delle classi dominanti, cioè sottolineando la propria importanza per la società (maggiore di quella delle persone comuni), il proprio potere di influire sulla realtà circostante, la propria istruzione e la propria cultura”. Eugen Kogon, che aveva il ruolo di segretario personale del medico capo di Buchenwald, racconta “con un certo orgoglio che nella quiete della notte godeva della lettura di Platone e di Galsworthy, mentre nella stanza adiacente i prigionieri comuni appestavano l’aria col loro puzzo e russavano spiacevolmente. Egli sembra incapace di rendersi conto che (…) poteva leggere perché non tremava dal freddo, non moriva di fame, non era istupidito dall’esaurimento”. Ai dubbi di Levi sulle testimonianze dei prigionieri anonimi si potrebbe rispondere così: se la frammentazione propria di qualsiasi esperienza è spinta in Lager al suo estremo, è attraverso questo estremo che bisogna passare per avvicinarsi alla comprensione. Se si capovolge il punto di osservazione, lo spiraglio attraverso cui i deportati hanno visto il campo aiuta a immaginare lo spaesamento, l’impoverimento mentale e sensoriale. Aiuta anche quando l’attenzione si sposta alla ricerca dei dati “oggettivi”. Levi riflette sulle derive e sui rischi della memoria, sul sovrapporsi di esperienze e racconti altrui, sull’impoverirsi del linguaggio esposto all’invadenza delle formule celebrative. Sullo scorrere del tempo che di per sé appannerebbe il ricordo. Sugli irrigidimenti favoriti dalla ripetizione: le testimonianze dei deportati non sfuggono al meccanismo principe del registro narrativo, secondo cui l’atto del raccontare modifica quel che si sta raccontando.
Anna Bravo , da Pagine Ebraiche febbraio 2014
Questo testo è una anticipazione dal quinto volume della collana “Lezioni Primo Levi”, ed. Einaudi, che sarà pubblicato in maggio, tratto dalla Lezione Primo Levi 2013-2014.