Periscopio – Controvita
Per una coincidenza, proprio in occasione delle celebrazioni per la Giornata della Memoria stavo terminando la lettura di un inquietante (come tutti gli altri) romanzo di Philip Roth, intitolato, nell’edizione italiana, “La controvita”. Le manifestazioni organizzate in Campania per la Giornata hanno avuto tra i principali protagonisti il grande testimone Paul Schreiner (di cui tra poco saranno pubblicate le straordinarie e terribili memorie, a cura di Suzana Glavas), che ha raccontato, davanti a platee attonite di giovani ascoltatori, lo sterminio della sua famiglia da parte degli ustascia croati, e i quattro anni passati nascosto in un fienile, grazie all’umanità di un contadino, con interminabili notti a 10 gradi sotto zero, a cercare calore vicino alle mucche e ai cavalli.
Nel libro di Roth, uno dei personaggi, il tormentato e famoso scrittore ebreo Nathan Zuckerman (alter ego dello scrittore, protagonista di molte delle sue opere), stanco della stressante vita americana, cerca rifugio nell’amena campagna inglese, sposando un bella e giovane ragazza dell’aristocrazia britannica, dal carattere mite e sereno. La placida vita del Gloucestershire sembra placare l’inquieto romanziere, che vede una limpida corrispondenza tra la dolcezza della natura e la mansuetudine e l’affettuosità della giovane moglie. Pian piano, però, lo scrittore realizza che l’ambiente circostante è fortemente intriso di un sottile, strisciante antisemitismo, a cominciare dalla famiglia della sposa. La suocera, per esempio – donna civile, istruita, beneducata -, è convinta che dagli ebrei emani un odore particolare, tanto da avere premura di aprire le finestre quando uno di loro ha lasciato una stanza. La giovane e bella moglie invita il marito a non fissarsi su queste piccole superstizioni, a suo giudizio piccolezze prive di importanza, e a godersi la loro bella e comoda vita di coppia. All’insistenza del marito, che la spinge a pronunciarsi con chiarezza su tali fenomeni, la moglie contrattacca, accusandolo di volere deliberatamente esasperare la situazione, ingigantendo dei minuscoli pregiudizi di scarso valore, che non dovrebbero turbare la loro piacevole esistenza, nella loro bella casa e nella florida campagna britannica.
Ne scaturisce un alterco insanabile, al seguito del quale la coppia si separa. Nella lettera di addio, la moglie accusa il marito ebreo di avere bisogno dell’antisemitismo, e di andare a caccia delle sue tracce, ancorché marginali, per alimentare forzatamente un’identità ebraica che, a suo giudizio, non avrebbe nessuna necessità di esistere. E se lui vuole proprio, a ogni costo, restare ebreo, ebbene, che così sia, ma almeno non si turbi se poi qualcuno, di fronte a ciò, reagisce. “Per quanto riguarda gli inglesi – scrive la moglie -, essere ebrei è una cosa di cui bisogna – molto raramente – scusarsi, e questo è tutto”: qualcosa di “ben lontano dall’orrore che hai immaginato tu”.
Mi è venuto naturale confrontare la terribile realtà del racconto di Paul Schreiner e la creazione letteraria di Philip Roth (certamente scaturita da esperienze vissute), e mi è sorta spontanea una domanda: che distanza c’è tra il terribile, bestiale antisemitismo della cieca macchina da guerra che ha sterminato la famiglia di Paul Schreiner e il piccolo, civile, educato antisemitismo della suocera (che, dopo avere amabilmente consumato una tazza di tè, apre la finestra) e della moglie di Zuckerman (che non ha niente contro gli ebrei, tanto da averne addirittura sposato uno, ma, semplicemente, preferirebbe che dimenticassero di esserlo, o che, almeno, chiedessero scusa – almeno ogni tanto – per il fatto di esserlo)? Quanto c’è, nel ‘piccolo’ antisemitismo, dell’‘orrore’ del ‘grande’?
Francesco Lucrezi, storico
(12 febbraio 2014)