Il cadavere vivente
Della Siria, delle sue quotidiane tragedie, del martirio di una parte della popolazione, poco o nulla si dice in Occidente e, soprattutto, in un’Italia invece assai loquace su tante altre cose. La ragione è banale, nella sua semplicità: per i più, se non per quasi tutti, è impossibile “scegliere” con chi identificarsi tra le parti in lotta. Forse con i tagliagole jihadisti? Oppure con il rissoso e inconcludente coordinamento delle opposizioni armate “laiche”? In alternativa, con quel che resta del regime del cupo, livoroso e criminaloide Bashir al-Assad e con i reparti di truppe lealiste che combattono ancora per una fittizia “Siria indipendente”, grazie al generoso apporto di Mosca e al sostegno di Putin? Si tratta di una situazione al contempo imbarazzante e tragica. L’imbarazzo deriva dal combinato disposto tra silenzio omissivo e indifferenza. La tragedia discende dalla consapevolezza che è in corso una catastrofica guerra civile (nonché soprattutto contro i civili), dove dei circa ventitré milioni e mezzo di abitanti residuano già da adesso almeno centotrentamila morti, due milioni di profughi espatriati oltre i confini nazionali, in una nuova diaspora che pesa – perlopiù – sulle spalle dei traballanti vicini (in primis il Libano, parte dell’Iran e della Turchia, la Giordania e lo stesso Iraq), e ben nove milioni di sfollati interni. In un rimescolamento etnico e culturale che ha reso ancora più ingarbugliata, e quindi ingestibile, una situazione di per se stessa in origine caotica. Si tratta senz’altro di una guerra per procura, laddove gli zampini dell’Iran e dell’Arabia Saudita stanno lasciando un’impronta lacerante. Un conflitto tra due teocrazie, che dal 1979 vanno avanti regolandosi i conti vicendevolmente per interposte vittime. Una guerra tra sunniti e sciiti, quindi infra-musulmana, ma dove le linee di faglia, le spaccature, sono trasversali agli stessi gruppi che garriscono la medesima bandiera. La concorrenzialità tra formazioni salafite e alqaediste, tanto pronte a sparare ad un comune nemico quanto a massacrarsi tra di loro, è pari solo alla rabbiosa impotenza con la quale i componenti della eclettica e litigiosa Coalizione nazionale siriana periodicamente si spaccano al proprio interno. E se Ryad arma e benedice le minacciose formazioni dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante”, in dichiarata funzione anti-Assad, Teheran chiama Hezbollah a sostenere Damasco. Si tratta di scegliere sotto quale lama mettere la propria testa, affinché la ghigliottina la tagli più o meno lestamente. In questo scenario, dove nessuno parrebbe, almeno al momento attuale, troppo forte per potere prevalere sugli altri, si misura anche un aspetto significativo del declino americano in Medio Oriente. Dopo le deliberazioni della conferenza di Ginevra 1, tenutasi nel giugno di due anni fa, la Casa Bianca si è faticosamente attestata sulla posizione che intende imporre una soluzione negoziata del conflitto in base all’improbabile principio per cui dovrà subentrare, prima o poi, “un governo di transizione di comune accordo con le autorità in carica”. Una (falsa) soluzione salomonica che rischia di rivelarsi, in realtà, un atteggiamento alla Ponzio Pilato. Poiché la precettistica al riguardo, in soldoni, recita così: un consorzio rappresentativo delle tante (troppe) forze in campo si sostituirà, passo dopo passo, all’attuale leadership damascena, ancora tenuta saldamente nelle mani degli alauiti, adoperandosi affinché il passaggio di consegne avvenga con il minore spargimento di sangue possibile e con il maggiore livello di consenso ottenibile sul versante del potere declinante, quello per l’appunto del clan degli Assad. Che dietro la tenuta ostinata di quest’ultimo vi sia l’ombra di Mosca (interessata a controllare gli accessi al Mediterraneo e a gestire in prima persona il complesso quadro geopolitico regionale) pare quasi sembrare una sorta di irrilevante particolare. Così come, dinanzi ad un rischio virale, ossia che le tensioni possano trasmettersi anche nei paesi vicini – posta alla quale puntano concretamente i movimenti islamisti più radicali -, il ruolo di Bashir, autocandidatosi a cane da guardia del fronte anti-integralista, non costituisca un elemento rilevante nella delicata partita in gioco. Poiché il discorso che il tirannico oftalmologo fa è chiaro e inequivocabile: se io dovessi saltare, ve la vedrete poi voi con la proliferazione di gruppi e gruppuscoli di varia osservanza ma tutti accomunati da una concezione medievale della politica e della società. Al momento gli alauiti e le truppe ancora lealiste controllano la costa ed una parte dei centri urbani. I curdi, altra componenti in campo, si sono attrezzati per esercitare una sorta di giurisdizione supplementare sul nord-est del Paese. I sunniti sono presenti a macchia d’olio, soprattutto in quei luoghi dai quali hanno espulso gli sciiti (e viceversa, in un sistema di specchi incrociati). Ne consegue una sorta di violenta cantonalizzazione di fatto della Siria, dove la guerra civile multipolare sta comportando il rischio non solo di fratture non componibili, con la creazione di una pluralità di micro-feudi su base etnica e confessionale, ma anche un’escalation della violenza a sfondo religioso senza più nessun controllo. Che non ci siano da noi voci critiche su questa deriva, stride ancora di più dinanzi all’eterna litania che viene invece snocciolata quando lo sguardo si pone, maniacalmente, su Gerusalemme e Ramallah.
Claudio Vercelli
(16 febbraio 2014)