Periscopio – La Shoah e Israele
In un articolo pubblicato sul notiziario quotidiano Pagine Ebraiche 24 dello scorso 21 febbraio, intitolato “Separare la Shoah da Israele”, Anna Segre, nel commentare il dibattito svoltosi in un recente convegno sul negazionismo, facendo propria l’osservazione secondo cui il vero bersaglio dei negazionisti sarebbe lo Stato di Israele (“si nega la Shoah per delegittimare lo Stato ebraico”), afferma la necessità di “far comprendere che quando si parla di Shoah, Israele e la politica mediorientale non c’entrano per nulla”, e di spezzare così un “abbraccio mortale” (quello, appunto, tra Shoah e Israele) da cui, “per il bene di Israele, dovremmo liberare tutti i discorsi, non solo quelli degli altri ma anche i nostri”. “Più confondiamo e mescoliamo i discorsi sulla Shoah e quelli su Israele, – conclude l’opinionista – più facciamo il gioco degli antisemiti… Sarebbe bello poter liberare Israele dalla Shoah, da questa cappa opprimente, da questa caligine che confonde e avvelena tutti i discorsi, i nostri non meno di quelli altrui”.
Siffatte affermazioni mi lasciano alquanto perplesso, per i loro presupposti, il loro significato e le loro conseguenze.
Innanzitutto, non ho proprio l’impressione che, nelle commemorazioni della Shoah, ci sia un ricorrente, indebito collegamento con lo Stato di Israele. Tutte le numerose volte in cui ho partecipato a cerimonie commemorative sulla Shoah non l’ho mai fatto, e, quando l’ho visto fare, è stato quasi sempre in chiave di ostilità anti-israeliana, tipo “oggi i ruoli si sono invertiti” e altre amenità del genere, di fronte alle quali, tutte le volte che ho potuto, ho reagito. Ma non è vero che la Shoah venga generalmente strumentalizzata a beneficio di Israele, anche se sta diventando un luogo comune dire che ciò avvenga. Certo, quando mi è parso opportuno, mi è capitato di ricordare che una parte degli ebrei d’Europa sono sfuggiti all’ecatombe solo per avere trovato rifugio in Palestina, dove poi, loro e i loro figli, hanno potuto vivere una vita da uomini liberi, nella rinata patria ebraica. Almeno questo lo si potrà dire, immagino.
E’ verissimo che i negazionisti (che io chiamo “asserzionisti”) vogliono colpire Israele. Ma non è quello l’unico bersaglio, perché l’asserzionismo non è altro che una forma di antisemitismo, e, in quanto tale, vuole colpire gli ebrei dovunque e comunque: con le parole e le azioni, nella carne e nello spirito, nella loro identità, religione, cultura, memoria ecc., senza tanti distinguo. Non è che, offrendo un “pacchetto” unitario (Israele + Shoah), facilitiamo loro il compito, mentre, separando le due cose, li mandiamo “in tilt”, perché saprebbero benissimo continuare a spargere il loro veleno, a destra contro la Shoah, a sinistra contro Israele, contemporaneamente, o a giorni alterni. Anche se noi spezziamo il collegamento, loro lo sanno costruire benissimo da soli. E’ così facile.
Infine, anche ammesso che lo si voglia fare, la separazione tra Israele e Shoah è semplicemente impossibile, in quanto la memoria di ciò che è stato è stampata in modo indelebile nell’anima dello Stato ebraico. Si tratta di un semplice dato di fatto, che niente potrà mai cambiare. La legge istitutiva di Yad Vashem, per esempio, attribuisce una “cittadinanza della memoria” a tutte le vittime della Shoah, e il valore di questa norma, unica nel suo genere (in quanto fa diventare cittadini di uno stato che, quando si è vissuti [e morti], ancora non esisteva), non è simbolico, ma reale, giuridico. E, se si abolisse questa legge, in nome della rottura dell’ “abbraccio mortale”, i sei milioni tornerebbero cittadini di quei Paesi che tanto si sono mostrati premurosi della loro sorte: Polonia, Ucraina, Ungheria, Romania, Austria, Germania. E’ questo che si vuole?
Francesco Lucrezi, storico
(26 febbraio 2014)