riscatti…

“Èlle fequdè ha-mishkàn, mishkàn ha-‘edùth ashèr puqqàd ‘al pi Moshè”, “Questo è il rendiconto del Mishkàn, Mishkàn della testimonianza, che è stato reso per bocca di Moshè”. Con queste parole si apre la Parashà di questa settimana, che chiude il libro di Shemòth. È una Parashà che, oltre ad essere “tecnica”, è anche ripetitiva, perché – come abbiamo detto la settimana scorsa – descrive nuovamente il Santuario e i suoi arredi, come la Torà aveva già fatto tre settimane fa.
Ma non è su questo che ci soffermeremo, bensì su uno strano commento di Rashì in merito alla ripetizione della parola “Mishkàn”. Rashì scrive: “Rémez la-Miqdàsh she-nithmashkèn bi-shnè chorbanìn ‘al ‘awonothehèm shel Israèl”, “è un accenno al Beth Ha-Miqdàsh che è stato preso in ostaggio nelle due distruzioni a causa dei peccati d’Israele”. Letto così, questo commento è assolutamente incomprensibile. Che cosa c’entra il Mishkàn con la distruzione del Beth Ha-Miqdàsh? E qual è il nesso con il termine “ostaggio” di cui Rashì si serve?
La radice della parola “Mishkàn” è “Shakhòn”, che significa “risiedere”; da qui il significato di “Luogo ove risiede” (sottintendendo la Presenza divina). Ma una parola di suono analogo è “Mashkòn”, ossia deposito, ma anche pegno od ostaggio. Il Midràsh riportato da Rashì gioca su questa duplicità di significato, per dire che il Santuario sarebbe stato tenuto in “ostaggio” da D.o, dopo la distruzione, perché il popolo d’Israele non lo meritava. Ma un ostaggio è qualcuno o qualcosa che può e deve essere riscattato, e sta dunque a noi far sì che l’ostaggio si trasformi nuovamente nel luogo dove è sensibile e percepibile la Presenza divina.
Ma in che modo si deve fare per ottenerlo? Anche qui, sempre collegandoci al concetto di “ostaggio”, il Midràsh ci fornisce delle indicazioni; per seguirle, però, dobbiamo analizzare altri due aspetti del nostro versetto. Il primo è la radice “Paqòd”, che è alla base di due parole che si ritrovano qui: “Pequdè” e “puqqàd”, termini che abbiamo tradotto con “rendiconto” e “reso”; difatti la radice è in rapporto con conteggi, con analisi minuziose, col ricordare con precisione. D’altro canto la stessa radice è collegata anche al concetto di “venire a mancare”, originariamente perché ciò che manca è ciò che balza agli occhi in un conteggio, in un rendiconto. L’altro aspetto è l’espressione “‘al pi Moshè”, da noi tradotto letteralmente “per bocca di Moshè”. Qual è il nesso fra questi concetti?
Come sappiamo, se Moshè fosse entrato in Eretz Israel, il popolo ebraico non sarebbe mai caduto in errore e quindi il Santuario non sarebbe mai stato distrutto. Quindi è a causa di Moshè che il Miqdàsh è diventato “ostaggio”, come dicevamo prima. Ciò che ha causato il divieto a Moshè di entrare nel Paese è stato – come sappiamo – il fatto che egli apostrofò il popolo assetato con l’epiteto di “ribelli”: pertanto è stato “per bocca di Moshè” che il Beth Ha-Miqdàsh è venuto a mancare.
E qui noi riceviamo dalla Torà un messaggio di grande forza ed attualità, osservando come un uso incauto della parola, della bocca, possa causare gravi carenze, gravi mancanze, che vanno – e se lo vogliamo è sempre possibile – rimediare e riscattare.

Elia Richetti, rabbino

(27 febbraio)