Identità: Solomon Freehof
Nel 1958 l’allora Primo ministro dello Stato di Israele, David Ben Gurion si è trovato a gestire il fatto che la nozione stessa di identità ebraica era diventata in Israele oggetto di una legislazione che avrebbe avuto implicazioni pratiche cruciali. A cinquanta “Saggi di Israele” Ben Gurion pose la domanda divenuta il titolo del lavoro del professor Eliezer Ben Rafael, che in un e-book intitolato “Cosa significa essere ebreo?” – scaricabile dai siti www.proedieditore.it e www.hansjonas.it – ha messo in luce per la prima volta in Italia quella discussione sistematica sull’identità ebraica. Ogni domenica, sul nostro notiziario quotidiano e sul portale www.moked.it, troverete le loro risposte. Oggi la risposta di Solomon B. Freehof (1892-1990), già presidente del Comitato direttivo dell’ebraismo riformato degli Stati Uniti.
Nato a Londra, nel 1903 emigra con i genitori a Baltimora negli Stati Uniti. Studia all’università di Cincinnati (dove, nel 1914, ottiene un primo titolo accademico) e all’Hebrew Union College (HUC) dove è ordinato rabbino. Partecipa alla Prima Guerra mondiale come rabbino militare. Dopo la guerra, entra nel corpo insegnante dell’HUC ed è nominato rabbino di una comunità a Chicago (1924). Nel 1930 è presidente della Commissione riformata per la liturgia e responsabile della pubblicazione dei libri di preghiera del movimento (Union Prayer Book in due volumi, 1940-1945; Union Home Prayer Book, 1951). Dal 1934, Freehof è rabbino a Pittsburgh e presidente del Comitato direttivo dell’ebraismo riformato degli Stati Uniti. Ha pubblicato anche studi sulla letteratura dei Responsa rabbinici. Tra i suoi lavori si citano The Book of Psalms: A Commentary (1938), Reform Jewish Practice and its Rabbinic Background (1944-1952), Treasury of Responsa (1963).
Pittsburgh, 11 dicembre 1958
Caro Signor Ben Gurion,
Ho letto la Sua lettera molto interessante e importante del 27 ottobre in cui Lei chiede a un certo numero di personalità religiose ebraiche un’opinione sul problema di sapere se possono essere accettati come ebrei i figli di matrimoni misti la cui madre non è ebrea e non è convertita all’ebraismo.
Poiché suppongo che voglia consultarmi in quanto presidente del comitato dei Responsa della Central Conference of American Rabbis e voglia avere, tra le altre, l’opinione di un’interpretazione liberale della legge e della pratica ebraiche in merito, e poiché sono sicuro che Lei sa che il problema è più complesso di una semplice esposizione della legge ortodossa, mi è stato in qualche modo necessario scrivere una risposta sistematica e perciò minuziosa. La prego, di conseguenza, di volermi perdonare per la lunghezza della risposta che qui allego.
Con i miei migliori auguri,
Cordialmente
Solomon B. Freehof
Risposta del dottor Solomon B. Freehof al Signor David Ben Gurion, Primo ministro dello Stato di Israele.
Domanda
La sicurezza dello Stato di Israele esige che ogni cittadino sia munito di una carta di identità che menzioni la nazionalità (o l’origine) e l’affiliazione religiosa. La menzione dell’affiliazione religiosa ha provocato un grave conflitto tra i leader religiosi ortodossi e l’ufficio dello stato civile dello Stato di Israele. La controversia è netta nel caso di un figlio il cui padre è ebreo e la cui madre non lo è e non è convertita [all’ebraismo]. I genitori desiderano che il figlio sia registrato come ebreo. Lo Stato è pronto a farlo basandosi sul fatto che l’affiliazione religiosa è libera scelta dell’individuo e che, nel caso di un minore, i genitori, in quanto tutori, possono fare la scelta in sua vece. I leader religiosi però si oppongono dal punto di vista della legge ortodossa. Un figlio di madre non convertita non è ebreo e un non ebreo può diventarlo solo con una cerimonia speciale, mikveh per la femmina, mikveh e circoncisione per il maschio. Consentire l’affiliazione sulla sola base della scelta, come propone lo Stato, è dichiarata essere una violazione delle esigenze della legge ebraica e rischia di appannare l’identità dell’ebraismo come comunità religiosa. Che cosa si deve fare in questa situazione?
Risposta
Le leggi sull’accoglienza dei proseliti nell’ebraismo sembrano, a prima vista, chiare e nette. Ma non è proprio così. Come nel caso di altre leggi, l’atteggiamento emotivo degli eruditi delle diverse generazioni si riflette sulle loro decisioni in merito. Talvolta, quando i rabbini sentivano che le circostanze del momento richiedevano [posizioni più rigorose del solito], le mettevano in pratica e diventavano più severi. Purtroppo, questi atti preventivi tendono a diventare permanenti e quanto più una legge è dura, tanto più le posizioni restrittive acquistano forza e la legge si allontana sempre di più dalla vita reale.
L’attuale posizione del rabbinato ortodosso circa l’affiliazione di bambini all’ebraismo rivela questa tendenza ad aumentare le restrizioni. All’inizio, la legge dava largo spazio all’accoglienza dei bambini nell’ebraismo. Il Talmud (Trattato Ketubbot 11a) dice semplicemente che il Bet Din può disporre l’immersione rituale per la conversione di un bambino. La discussione di cui tale enunciato è stato oggetto dimostra che, sebbene il bambino non possa essere consapevole di tutto ciò che implica la sua adesione all’ebraismo, [consentire la sua conversione] significa fare un’azione caritatevole nei suoi confronti. Inoltre, il Talmud (Trattato Yevamot 47b) considera una mitzvah accettare proseliti. È vero che, in alcuni periodi, i Saggi si dimostrarono più reticenti ad accettare i proseliti, mentre in altri lo fecero più volentieri, ma sembra chiaro che per quanto riguarda i bambini la cui anima è ancora pura (si veda il Trattato Ketubbot 11a), si sono sempre dimostrati accoglienti.
Tuttavia, un secolo fa circa, la concezione dei leader spirituali è cambiata. Poiché i matrimoni misti erano sempre più numerosi, molti uomini hanno chiesto alla comunità di circoncidere i loro figli nati da donne non ebree perché volevano che fossero ebrei. Le obiezioni si sono allora moltiplicate. Solomon Kutno ha scritto un’opera in due volumi, U-va-Torah yasseh (Che sia fatto secondo la Legge), che richiamava l’attenzione sui grandi pericoli che incombevano sull’ebraismo se avesse accettato tali bambini. D’altro canto, il rabbino capo dell’Impero britannico ha testimoniato che suo zio, Tevele Schiff, ha autorizzato la circoncisione di tali bambini in California e in Australia (cioè in luoghi ben definiti) sottintendendo che più avanti, se possibile, ove la famiglia si fosse stabilita in qualche posto più popolato, il bambino avrebbe dovuto essere portato al mikveh. Un’identica posizione si ritrova nei responsa di Marcus Horowitz, il rabbino ortodosso di Francoforte, settantacinque anni fa (si veda Mate Levi, vol. 2). Horowitz alla fine decise di non essere troppo rigoroso e di autorizzare la circoncisione di neonati [dello stesso statuto], ma pretese che la madre non ebrea promettesse di convertirsi all’ebraismo. In altri termini, si nota una differenza nelle posizioni. Lo stesso Shulhan arukh, dicendo che non si deve fare la circoncisione il giorno di Shabbath (Yore dea 266,13), lascia intendere che il figlio di madre non ebrea può essere circonciso. Quando i rabbini sentono la necessità di essere rigorosi, si basano su un’altra legge dello Shulhan Arukh (Yore dea 334,6) in cui Isserles53 afferma che, nel caso di un uomo scomunicato, il tribunale può opporsi alla circoncisione del figlio.
È perciò evidente che la legge non è assolutamente invariabile. Se oggi i rabbini sentissero che è meglio essere liberali, incoraggerebbero l’accoglienza di questi bambini come ebrei invece di averne paura. Chiederebbero, certamente, l’esecuzione della cerimonia rituale ma il loro atteggiamento sarebbe amichevole e non ostile di fronte a questa situazione.
È importante, a questo proposito, ricordare la decisione della Central Conference of American Rabbis, l’organizzazione ufficiale del movimento riformato d’America (si veda Yearbook, 1947). Un tale bambino è benvenuto nella scuola della comunità riformata, e se porta a termine il programma scolastico, consideriamo l’istruzione acquisita l’equivalente di qualsiasi cerimonia rituale di conversione. In altri termini, sebbene le cerimonie non siano trascurate, nel movimento riformato l’insegnamento dell’etica, della storia e della letteratura ebraiche è considerato l’elemento più importante. Questa è la ragione per cui non ci accontentiamo semplicemente di cerimonie ma chiediamo anche un periodo di insegnamento.
In questa situazione, una delle cause delle difficoltà non è tanto la legge, quanto la posizione dei rabbini. In Israele, c’è una sola forma di religione ebraica, la quale, per ragioni che le sembrano legittime, è spaventata dalle attuali circostanze che attraversa la religione ebraica nel mondo (anche in Israele) e reagisce duramente contro qualsiasi forma di liberalismo nei confronti dei proseliti. In Israele esistono tendenze diverse tra gli ebrei ma un solo tipo di organizzazione religiosa. In America, invece, ci sono diversi modelli di organizzazione religiosa, c’è una generale disposizione alla tolleranza anche per quanto riguarda la differenza tra il tradizionale e il moderno.
Ma che cosa si deve fare nelle attuali circostanze? Lo Stato può solo accettare che la religione sia una questione di scelta, [mentre] l’ortodossia può solo esprimere la sua diffidenza e restare sulle sue posizioni, esigendo il mantenimento di tutto il cerimoniale, comprese l’immersione rituale e la circoncisione come preliminari indispensabili. L’ortodossia potrebbe, infatti, esigere anche la conversione formale della madre, adducendo che il figlio, anche se convertito, non avrebbe potuto essere completamente ebreo se fosse stato cresciuto da una madre cristiana. Tutto ciò costituisce un grave conflitto cui è necessario trovare una soluzione.
Potrei suggerire che una soluzione è possibile? Lo Stato potrebbe stabilire con chiarezza che non decide al posto della religione ebraica che cos’è un ebreo. Prenderebbe soltanto una decisione civile e politica [per sapere] a quale delle tre comunità, cristiana, musulmana ed ebraica, appartiene il cittadino. I controlli religiosi sussisterebbero. Perciò, quando il bambino crescerà e vorrà sposarsi, spetterà alle autorità religiose cercare di sapere se è nato da madre ebrea o no. Dovrebbe esserci un questionario di questo tipo per tutti quelli che vogliono sposarsi. Se le autorità religiose pensano che la persona è nata da madre cristiana, possono esigere alcune cerimonie prima che il matrimonio sia autorizzato. Tutto ciò che lo Stato dice adesso è che il bambino è politicamente e civilmente ebreo. Se è, oppure no, religiosamente ebreo, è quanto dovranno decidere le autorità religiose quando la questione si presenterà loro nei casi particolari come i matrimoni e i divorzi. Questo ha certamente come conseguenza la creazione di un gruppo di quanti potremmo definire semi-convertiti all’ebraismo. Sarebbero persone che avrebbero civilmente tutti i diritti ebraici ma religiosamente li avrebbero solo in forma provvisoria.
È possibile? C’è un precedente? Certo che c’è! Accanto ai veri convertiti (gher tzedek) che l’ortodossia adesso esige, c’era anche, ai tempi dell’antico Israele, uno statuto di semi-proseliti (gher toshav) basato sul Talmud (Trattato Avodah zarah 64b) e codificato da Maimonide […]. Ma tali semi-proseliti potevano essere accettati solo nel quadro di uno Stato ebraico […]. Ma dopo che lo Stato ebraico ebbe cessato di esistere, era pericoloso, o proibito, accogliere tali semi-proseliti. Adesso abbiamo di nuovo uno Stato ebraico. Senza entrare nella questione complessa dello statuto dello Stato nella religione ebraica, il fatto umano è, come scrive nella Sua lettera, che quale che sia il livello di assimilazione, questa andrà nella direzione dell’ebraismo e non nell’altro senso. Di conseguenza, è nuovamente possibile avere dei gher toshav, dei semi-proseliti. Infatti è tutto quello che lo Stato vuole. L’attuale difficoltà con i gruppi religiosi si è creata essenzialmente a causa della confusione tra gher tzedek, il proselita totale e gher toshav, il proselita provvisorio o semi-convertito.
Se oggi lo Stato vuole affermare che non dichiara questi bambini gher tzedek (la gherut sarà una questione sulla quale dovrà decidere la religione quando il problema dello statuto del bambino arriverà davanti alle autorità religiose al momento del matrimonio, ecc.), prende, così facendo, una decisione che istituisce la nozione di gher toshav, affermando il diritto civile di appartenere alla comunità ebraica piuttosto che a quella cristiana o musulmana. Credo che con questa netta distinzione potremo trovare una soluzione.
(2 marzo 2014)