Negazionismo e revisionismo
C’è un fraintendimento linguistico e lessicale che induce ancora molti a sovrapporre, e quindi a identificare nello stesso corpo, ciò che è definito – a torto o a ragione – revisionismo e quanto invece appartiene alla sfera del negazionismo. Come se le due cose coincidessero o fossero comunque speculari. Facendo così una grossa concessione, più che azzardata, ai mentitori di professione che rifiutano, per ovvio calcolo d’interesse, la qualifica, ai loro occhi offensiva, di negatori, cercando invece, in tutti i modi, di qualificarsi come legittimi «revisionisti» della storia, in ciò coraggiosamente contrapposti alla storiografia nella sua totalità, definita oltraggiosamente «sterminazionista» perché fondata sul paradigma fattuale, che per l’appunto i negazionisti rifiutano, dello sterminio con il ricorso alle camere a gas.
Cerchiamo quindi di fare un minimo d’ordine, altrimenti il rischio è di concedere alla menzogna una forza che non ha, quella di giocare non di rimessa bensì sul proprio campo, stravolgendo il senso delle parole. Fatto, quest’ultimo, che è parte integrante del dispositivo di distruzione dei significati che opera al cuore del negazionismo. Ancora una volta va ribadito il concetto – che si pone come un a priori – per cui la questione degli usi della storia (così come della costruzione di una storia contro-fattuale o di una visione capovolta della storia) è di per sé una questione politica, ovvero che chiama in causa l’agibilità dello spazio politico, inteso come dimensione pubblica, collettiva, insieme ai soggetti che in esso vi operano e agli obiettivi che vi si danno. Peraltro il fare storia, adottando i metodi della ricerca scientifica, non esula dal valutare le ricadute sociali che, inevitabilmente, ogni narrazione pubblica su di un passato comune, producono nel presente. Anzi, lo storico è consapevole che il riflesso della sua ricerca sui sentimenti dell’oggi è uno degli effetti più rilevanti del suo operare.
Dopo di che, posta questa premessa, rimane la questione dell’indebita associazione tra quel gruppo di autori, perlopiù tedeschi, che a partire dalla seconda metà degli Ottanta si identificò – o fu identificata – come corrente revisionista e l’universo mentale, ideologico e simbolico che ruota intorno al negazionismo. La questione di una secca distinzione si pone non tanto per preservare le prerogative dei primi quanto per meglio identificare i caratteri del secondo. È fin banale ripetere il mantra che afferma la natura revisionista dell’agire dello storico. Va da sé che laddove emergano nuovi dati, o elementi di fatto, chi si adopera nella ricerca storica non possa non prenderne atto, adeguando quindi i giudizi che da essi possono derivare rispetto all’ordine delle valutazioni che sono chiamate in causa. Peraltro gli storici revisionisti si sono assai poco interessati di apportare alla ricerca storica sul Novecento, e sulle sue tragedie, nuovi riscontri, propendendo semmai per una lettura radicalmente diversa del quadro già conosciuto degli eventi, senza mettere in discussione il loro verificarsi ma collocandolo all’interno di una costellazione d’interpretazioni assai diversa da quella accetta da buona parte della storiografia. Il fuoco della loro visione del passato tedesco ruota intorno al legame che sussisterebbe tra la violenza stalinista e l’universo concentrazionario nazista.
La prima, nel suo concreto articolarsi, innescando un fenomeno di «guerra civile europea» pressoché permanente, tra il 1917 e il 1945, sarebbe all’origine del totalitarismo nazifascista, da interpretarsi quindi come sua reazione, ancorché enfatica e scomposta. Il gulag, in altre parole, avrebbe preceduto (ed in parte originato, se non altro per risposta sul piano puramente reattivo) il lager. Il più acceso sostenitore di queste posizioni, Ernst Nolte, già negli anni sessanta aveva peraltro letto i fascismi europei essenzialmente come una dinamica anticomunista. In quegli anni le sue affermazioni avevano incontrato il favore di una parte delle sinistre, che intendevano i totalitarismi di destra come una variante politica del capitalismo più oltranzista. Quando vent’anni dopo Nolte, ed altri insieme a lui, riprendono tale tema di fondo, in una stagione culturale completamente diversa, in prossimità del crollo di quello che restava dei regime dell’Est, la piegatura che esso assume da subito è molto diverso, divenendo strumento di polemica in mano alle componenti più conservatrici non tanto dell’accademia quanto della pubblica opinione. Non a caso, infatti, lo scontro tra revisionisti e antirevisionisti si gioca sulle pagine dei quotidiani più che nelle aule delle università, oppure per il tramite di pamphlet piuttosto che di ponderosi saggi di studio e ricerca.
Il revisionismo, in quanto strategia di ricerca e retorica della comunicazione pubblica, ambisce da sempre a raggiungere una teoria conchiusa, completa e in sé autosufficiente, del fenomeno dei «totalitarismi». Dentro questo termine, d’uso comune, inserisce un insieme di regimi e ideologie politiche, che spaziano dalla destra alla sinistra, trovando nella loro matrice antiliberale e, soprattutto, anti-individualista, il nocciolo della loro comunanza. Il revisionismo storiografico, infatti, è e rimane funzionale alle culture neoliberali che si sono sviluppate a partire dagli anni Settanta. Il punto di saldatura con esse è il giudizio che formula sul ruolo storico del capitalismo, che avrebbe prodotto storicamente il sistema delle democrazie di mercato. Ciò che a queste ultime si contrappone, secondo la visione revisionista, sarebbero per l’appunto i totalitarismi, come reazione feroce e violenta allo sviluppo “naturale” dei sistemi economici e politici moderni. Quanto da ciò gli deriva, quindi, è una sostanziale indifferenza nei confronti delle peculiarità del nazionalsocialismo, rifiutando qualsiasi indagine sui legami e sugli scambi d’interesse tra il regime hitleriano e il circuito economico tedesco ed europeo. All’epoca, aggiungiamo noi, i nazionalsocialisti facevano coincidere economia e capitalismo, considerandoli di fatto un tutt’uno. Il sistema di produzione e consumo vigente non era da esaltare in quanto tale ma da depurare della presenza di tutti quegli «elementi parassitari» (dall’ebraismo al socialismo, l’uno e l’altro unificati nella categoria razzista e ideologica del «giudeobolscevismo») che inquinavano la sua evoluzione, laddove essa doveva invece conciliarsi appieno con lo «spirito tedesco». L’economia, nell’ideologia nazista, era funzionale allo sviluppo della Volksgemeinschaft, la «comunità di stirpe». Per il capitalismo tedesco, d’altro canto, l’eliminazione della democrazia e la feudalizzazione dello Stato, operate dal partito di Hitler, erano due strumenti funzionali allo sviluppo delle forze produttive. Si veda, a tale riguardo, il capitolo, che con l’aprile del 1942, al momento dell’emanazione della cosiddetta «Circolare Pohl», si apre rispetto all’utilizzo dei prigionieri dei Lager in qualità di manodopera schiavistica per il gigantesco sforzo bellico che la Germania stava compiendo. Anche da ciò, oltre che dalla funzione esplicitamente antisindacale e repressiva del regime e dei suoi apparati, erano derivate convergenze e saldature tra quest’ultimo e l’industria e il capitale agrario tedeschi.
Detto questo, al revisionismo di tali dinamiche interessa poco o nulla. Semmai identifica il fondamento imperialista del nazionalsocialismo nel consenso che esso trovava in alcuni strati della popolazione, ribadendo che il trait d’union tra politica di violenza sistematica e raggiungimento dei peggiori obiettivi, tra cui lo sterminio degli esseri umani, erano il prodotto dell’alto grado di legittimazione sociale di cui il regime godeva. In questo affresco positivista di filosofia della storia (più che di storia in senso proprio), dove gli storici revisionisti cercano a qualsiasi costo coerenze, causalità e congruità tra situazioni, eventi e ruoli distinti, il revisionismo può tangenzialmente incrociare certi atteggiamenti della mentalità negazionista, soprattutto laddove si sforza di identificare, a qualsiasi costo, un nocciolo razionale nella persecuzione e nello sterminio degli ebrei. È il caso, per intenderci, di certi scritti di Ernst Nolte, soprattutto nella sua più recente stagione intellettuale. Se i negazionisti dicono che non è possibile che ci sia stato uno sterminio per gasazione di massa poiché esso non sarebbe stato nell’interesse materiale del Terzo Reich, i revisionisti lo riducono a una sorta di fenomeno collaterale, scarsamente influente quindi sul piano della valutazione della peculiarità storica del nazismo, quest’ultimo – come già si diceva – ricondotto invece al genere più ampio dei totalitarismi, di cui sarebbe la variante tedesca. Non molto di meno, non molto di più. Ne deriva, in tale caso, una vera e propria banalizzazione del nazismo (l’esatto contrario, tanto per intendersi, della cosiddetta e abusata categoria della «banalità del male», che indica invece un coinvolgimento senza limiti degli uomini comuni nei peggiori crimini di Stato), una perdita di senso della sua specificità storica, ora invece interpretato come una sorta di forma peculiare, sia pure eccessiva, dei processi di modernizzazione. Poiché, ed è questo un altro passaggio al quale in genere gli storici revisionisti tengono molto, il fenomeno della «gleichschaltung» nazionalsocialista (la «sincronizzazione», il «coordinamento», il «livellamento» dei tedeschi, ovvero l’insieme di azioni per rendere la società omogenea, esercitando un controllo sociale diretto sulla volontà delle persone orientandola costantemente nel senso degli interessi del regime) andrebbe letto come uno strumento che, sia pure nella sua brutalità, avrebbe a modo suo preparato il paese alla sua successiva democratizzazione, rompendo comunque sia con la tradizione prussiana sia con le ideologie della rivoluzione sociale precedentemente in voga, anche sulla scorta delle suggestioni sovietiche.
In questo quadro, tuttavia, il carattere effettivamente totalitario del nazismo, che non sta nella sua analogia immorale con altri regimi sanguinari del Novecento ma nella capacità di fare convergere verso comuni obiettivi una pluralità di poteri e di interessi tra di loro altrimenti concorrenti, in ciò però coltivando un’identità propria, si perde completamente. Così come si perde di vista un altro elemento strategico, ossia che il regime hitleriano trovava nel conflitto interno tra poteri (essendo in sé policratico, malgrado le raffigurazione granitiche offerte all’esterno), ovvero nella loro concorrenzialità, non un fattore divisivo bensì il criterio per mantenere unite le parti, offrendo loro obiettivi sempre più ampi e premianti, tra i quali una gigantesca guerra di sterminio. Si trattava di quella che è stata definita come «radicalizzazione cumulativa» e che ha interessato, in prima battuta, le politiche antiebraiche, partite dall’antisemitismo diffuso e terminate ad Auschwitz.
Se il negazionismo cancella, con un tratto di penna (o con un profluvio di parole), questo quadro d’insieme, il revisionismo lo ridimensiona nella sua complessità. Tuttavia l’uno e l’altro non sono assimilabili. Piaccia o meno. A meno che non si pensi alla storia come la «notte in cui tutte le vacche sono nere», come andava affermando Hegel contro l’idea di assoluto, ritenuta molto confusa, di Schelling, dove tutto veniva a coincidere e, quindi, ad annullarsi.
Caludio Vercelli, storico
(2 marzo 2014)