Eccesso di conoscenza
Il filosofo arabo-spagnolo Averroes (o Ibn Rushd, 1126- 1198), scriveva nel Kitab fasl al-maqal, che “… se si volesse moltiplicare il numero dei sapienti, si finirebbe in realtà per moltiplicare il numero degli ignoranti!”. Averroes era giunto a questa conclusione, trattando la disputa (ripresa anche nella scolastica cristiana e nel pensiero ebraico medievale) sull’accordo tra filosofia come razionalità, e fede come rivelazione, affermando che nelle Scritture sia opportuno distinguere un significato esoterico e nascosto per i pochi sapienti, e uno apparente e manifesto per la moltitudine, e propagandare il primo condurrebbe soltanto al fraintendimento e alla miscredenza. Anche oltre il contesto originario, la frase di Averroes, si rivela sintomatica, se non profetica. Oggi assistiamo a un’incessante propensione e tentativo del voler estendere, divulgare, semplificare, e soprattutto esplicitare ogni complessità a chiunque – o alla “ggente” riprendendo l’ironico neologismo gergale per definire un everyman moltiplicato, simboleggiante un caotico malcontento che trova spazio nella rete – Da una parte un bene, perché il fine è quello in definitiva, di rendere l’individuo più colto, costantemente informato e partecipe, come antidoto al buio e all’incertezza dei nostri tempi. Dall’altra nonostante questo “eccesso” di conoscenza e accessibilità a un tutto, non siamo maggiormente eruditi, anche rispetto ai nostri predecessori che vivevano rispetto a noi in un mondo in cui la cultura e la sapienza erano in custodia e nell’esclusivo possesso di pochi eletti e delle classi alte. Questo non vuol dare conferma al proverbio judeo-spagnolo e bagitto che dice “moro viejo no aprende lengua” (analogo all’italiano “chi di gallina nasce…”), ma forse, senza una specifica preparazione di fondo e un dato livello conoscitivo vogliamo spingerci oltre e sapere il troppo, dire la nostra su tutto, ricalcando quella sindrome moderna che in Flaubert si concretizza nei personaggi di Bouvard e Pécuchet. Giungendo ad adoperare, in alcuni casi, erroneamente questo sapere che diventa “liquido”, mischiandolo, confondendolo, e smarrendoci ulteriormente. Tutto deve e può essere alla portata di tutti, come quelle famose guide inglesi “… for dummies”, e allora si ricorre a un’economia per “negati”, un’astronomia per “negati”, filosofie orientali per “negati”, persino una Kabbalah universale per “negati” e principianti, e il più delle volte nascono ibridi mostri. Claudio Magris qualche giorno fa si domandava appunto sul Corriere, come fosse possibile nell’era di internet “essere più ignoranti”, ma ribadisco, non credo che siamo più ignoranti rispetto a un indeterminato passato, quanto piuttosto che vi siano troppi “esperti”, “sapienti” o presunti tali. Interessante, tornando ai risvolti delle parole di Ibn Rushd, notare che nell’Europa cristiana del basso medioevo, la diffusa traduzione delle Scritture nelle lingue volgari, diretta a una maggior comprensione e accessibilità di essa da parte del popolo, non ha condotto a questa e a una fede più solida, ma al contrario, ha finito progressivamente nel tempo, per sminuire, confutare e oggi banalizzare il significato dei testi religiosi. Così è avvenuto in parte, anche in ambiente ebraico nelle correnti riformate, dove la rilettura e revisione del Halakhah, e il passaggio nella liturgia da ebraico a lingue locali, ha ridotto per lo più l’ebraismo a un ruolo culturale, umanistico e secolare a discapito della sua profondità spirituale. Riecheggia allora il famoso monito di Ludwig Wittgenstein. Bisognerebbe prendere coscienza che certe cose, nonostante il nostro raziocinio e sete di conoscenza, non si possono comprendere, o non ne siamo ancora in grado, quindi è del tutto inutile affrontare, se non rischioso. Come nelle Scritture dove si trovano diversi piani interpretativi, e dove su alcuni di essi, dobbiamo fare lo sforzo come hamorim o dotti-ignoranti di non addentrarci, attenendoci al significato più letterale senza ugualmente dimenticare che ve n’è un altro meno accessibile e più inafferrabile, a cui potremmo eventualmente provare a giungere in seguito. Riporto in conclusione a questo proposito, un aneddoto inerente a sei-sette anni fa, quando chiesi al mio libraio di fiducia, se aveva un testo o una traduzione del Sefer ha-Zohar. Egli corrugò il viso, e mi consigliò prima di leggermi qualcosa di Gershom Sholem o di Moshe Idel, qualcosa in ogni caso di più introduttivo alla mistica ebraica. Io non accolsi granché questo consiglio, e dopo poco, comprai attraverso altre fonti, lo Zohar tradotto ed edito dall’Einaudi. Una volta in mano, tentato di leggere qualche pagina, lo richiusi, riponendolo sullo scaffale, e ho compreso di non esserne all’altezza. Trovando insensato e controproducente leggere lo Zohar senza prima avere una completa e più approfondita conoscenza del Tanakh e di altri innumerevoli testi.
Francesco Moises Bassano, studente
(7 marzo 2014)